Dazi, allarme per la pasta italiana: rischio tariffe al 107% dal 2026
Un settore simbolo del Made in Italy sotto assedio: come si è arrivati all’ipotesi di maxi-dazi, chi paga il conto e quali scenari per agricoltori, pastifici e consumatori.
La notizia è piombata sulle scrivanie delle imprese alimentari italiane come un macigno: il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti sta predisponendo misure che potrebbero portare i dazi sulle importazioni di pasta italiana a una soglia prossima al 107% a partire dal 1° gennaio 2026. Si tratta della somma di più interventi: al dazio di base del 15% stabilito negli scorsi mesi sul paniere agroalimentare europeo potrebbe aggiungersi un’ulteriore ricarica — risultante da specifiche indagini antidumping — dell’ordine del 91,74%, applicata a determinate aziende o categorie di prodotto. L’effetto sarebbe immediato e micidiale: i prezzi al consumo negli Stati Uniti raddoppierebbero (se non peggio), l’export si arena e centinaia di milioni — forse miliardi — di euro potrebbero evaporare dal bilancio complessivo del settore.
L’algoritmo dei dazi
Per capire l’origine di questo possibile shock bisogna fare un passo indietro. La macchina dei dazi statunitensi segue procedure consolidate: revisioni annuali, indagini su richiesta di imprese nazionali che si sentono danneggiate da importazioni straniere e determinazioni del Department of Commerce basate su contabili di costo-prezzo. In questa tornata, la segnalazione è partita da operatori Usa che hanno chiesto di verificare presunti “sussidi” o pratiche di dumping da parte di alcune aziende italiane. Tradotto nella pratica: Washington ha analizzato costi, margini, sconti e possibili trasferimenti di prezzo e ha deliberato — per certe linee di prodotto e per produttori individuati — l’applicazione di un rincaro straordinario delle tariffe.
La vicenda non è totalmente nuova: la stessa amministrazione americana ha imbastito nei mesi scorsi una riforma tariffaria più ampia che, in diversi passaggi, ha fissato un dazio generalizzato del 15% sulle importazioni da alcuni Paesi europei — misura che già aveva fatto gridare al “colpo al Made in Italy”. L’ipotesi odierna non è quindi un decreto isolato, ma la combinazione di due strumenti: il dazio generalizzato e l’aggiunta mirata derivante da indagini azienda per azienda.

Chi sono i più colpiti e quanto pesa il mercato americano
Al centro dell’inchiesta figurano, nelle ricostruzioni, alcuni grandi pastifici italiani — nomi simbolo del comparto — ma la grana interessa tutta la filiera: dai produttori di semola e grano duro agli impianti di confezionamento, dai distributori alle catene retail che importano prodotto finito o ingredienti. Gli Stati Uniti rappresentano da anni un mercato strategico per la pasta italiana, sia per le comunità di origine che per i consumatori affezionati al “made in Italy” alimentare; la perdita di accesso competitivo a quel mercato vuol dire non solo minori ricavi immediati, ma anche difficoltà nel mantenere rapporti commerciali pluriennali e quote di mercato difficili da recuperare.
L’impatto sul piano delle cifre è difficile da stabilire, ma le associazioni di categoria hanno già ipotizzato scenari drammatici: cali di fatturato, chiusure di linee produttive orientate all’export e ripercussioni occupazionali nei territori dove la pasta è industria di punta. Nei conteggi preliminari circolati nelle stanze di rappresentanza si parla di perdite che, in combinato con le tariffe già introdotte, potrebbero raggiungere cifre a nove zeri per l’agroalimentare italiano complessivamente — con la pasta come una delle voci più esposte.
Dinamiche commerciali e cause reali
Perché un paese che ha una cultura della pasta così radicata si trova ora a essere chiamato in giudizio? Le ragioni sono molteplici. Primo: la competizione internazionale si è inasprita, e negli Stati Uniti esiste una produzione domestica consistente che teme il confronto con l’import. Secondo: il meccanismo di denuncia è spesso innescato da lobby e attori locali che usano la leva tariffaria come strumento di difesa di quote di mercato. Terzo: l’intervento politico di Washington sul commercio con l’UE più in generale — nell’ambito della ridefinizione degli scambi post-pandemia e post-crisi geopolitiche — ha alzato l’asticella del rischio per tutte le imprese esportatrici. Infine, non vanno trascurate questioni tecniche: un’analisi contabile che trova “margini anomali” su due aziende può tramutarsi in una misura che poi investe l’intero settore perché il dazio è applicato alle categorie tariffarie che racchiudono più produttori.

La filiera italiana: semola, agricoltori e la vulnerabilità del grano duro
Dietro la confezione colorata di spaghetti c’è una filiera lunga e diversificata. Gran parte della materia prima proviene dal Sud Italia e dal Centro: grano duro macinato in semola che dà al prodotto finale la caratteristica tenacità. Negli ultimi anni il settore agricolo ha dovuto fare i conti con cambiamenti climatici, costi energetici e input più cari che hanno compresso i margini dei cerealicoltori. Il rincaro dei dazi su un bene trasformato come la pasta ricade così anche sui produttori di grano, che potrebbero vedere ridotta la domanda di semola a causa di un calo delle esportazioni. A catena, i contratti forward, le scorte e i piani di semina possono subire scossoni importanti dal momento in cui si modifica il posizionamento competitivo su mercati esteri chiave. (Questo passaggio è confermato dalle analisi del settore agrario e dalle associazioni di categoria).
Roma non resta a guardare
Il governo italiano ha già fatto scattare allarmi e contromisure: dossier diplomatici con l’ambasciata a Washington, interlocuzioni con la Commissione UE per valutare strumenti di risposta collettiva, e l’apertura di canali con organizzazioni commerciali per sostenere i produttori. Sul piano politico si avverte la doppia necessità di tutelare il Made in Italy e allo stesso tempo di non incendiare ulteriormente la controversia commerciale con gli Stati Uniti, partner strategico. Per ora Roma sollecita cioè dialogo e trasparenza nelle procedure amministrative statunitensi, mettendo in rilievo l’importanza di evitare misure discriminatorie che danneggerebbero consumatori americani e produttori europei.
Parallelamente, le imprese italiane interessate studiano ricorsi amministrativi e possibili azioni legali davanti ai tribunali del commercio internazionali: impugnare i dazi non è semplice né veloce, ma rappresenta una strada obbligata per chi vuole limitare i danni. Alcune aziende stanno anche ripianificando le loro strategie di export, cercando mercati alternativi e rafforzando la presenza in Paesi dove la pressione tariffaria è minore.
Cosa rischiano i marchi e il consumatore finale
Per i grandi marchi italiani la battaglia sarà doppia: proteggere quote di mercato e preservare immagine e rapporto qualità-prezzo. Per i piccoli produttori, che spesso vendono a nicchie o usano nomi locali, il rischio è quello di vedere la marginalità assottigliarsi fino a rendere anti-economico l’export. Sul fronte del consumatore americano si profilerebbe naturalmente un aumento dei prezzi importati — spese che normalmente ricadrebbero sul distributore o sull’acquirente finale — ma potrebbe anche aprirsi una corsa a sostituti locali o ad importazioni da altri Paesi che producono pasta a costi inferiori.

Le contromosse possibili in Europa: difesa comune o misure nazionali
L’Unione Europea ha strumenti per rispondere a pratiche commerciali lesive — dalle procedure antidumping comunitarie alle misure di contrapposizione — ma la scelta politica è sempre delicata: una mossa troppo aggressiva rischierebbe di aprire un conflitto commerciale più ampio. Per questo Bruxelles, insieme ai governi nazionali, valuta opzioni che spaziano da ricorsi multilaterali a compensazioni mirate per i settori più colpiti. La cooperazione tra Stati membri è però spesso complessa, e la diversità degli interessi nazionali rende difficile una posizione unanime e veloce.
Le lezioni del passato: quando i dazi hanno cambiato il mercato
La storia recente insegna che interventi tariffari possono rimodellare catene di fornitura e preferenze d’acquisto in pochi trimestri. L’imposizione di tariffe al settore vinicolo o olivicolo in altre contingenze ha già mostrato come i mercati si adattino: da un lato calano le esportazioni, dall’altro nascono campagne di promozione sui mercati alternativi e investimenti per aumentare la quota interna di consumo. Per la pasta, prodotto non deperibile e con possibilità di riconversione delle confezioni, alcune imprese potrebbero cercare di riallocare quote su Asia, Africa o America Latina; ma il valore simbolico del brand “italiano” è più forte negli Stati Uniti che altrove, e questo rende la perdita dell’America particolarmente dolorosa.
Il calendario delle decisioni e cosa monitorare
Sul cronoprogramma, l’attenzione è puntata su tre scadenze: i pronunciamenti amministrativi finali del Department of Commerce, gli eventuali ricorsi legali delle aziende interessate e le reazioni politiche dell’UE. Nel breve termine, bisognerà monitorare comunicati ufficiali, la pubblicazione delle tabelle tariffarie aggiornate e le mosse delle catene distributive americane: riduzione degli ordini, stoccaggi o interruzioni contrattuali saranno segnali che confermeranno la gravità della situazione.
Sotto l’ombra della geopolitica
Che lo si voglia o no, la pasta italiana è anche geopolitica: simbolo culturale ed elemento economico, capace di riassumere nel suo percorso di filiera molte delle fragilità e delle forze del Paese. Un aumento dei dazi fino al 107% non sarebbe solo un problema commerciale ma una ferita simbolica per un’industria che ha costruito parte della propria fortuna sull’idea stessa di Italia nel mondo. La risposta possibile è una combinazione di diplomazia economica, sostegno industriale e — forse — la capacità di raccontare nuovamente il valore autentico del prodotto italiano in maniera tanto emotiva quanto rigorosa sul piano commerciale.
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