Tragedia nell’Himalaya — Gli alpinisti italiani in Nepal: tra morti, dispersi e speranza che si fa sottile
Una spedizione alpinistica in Nepal si è trasformata in tragedia: tre italiani morti e altri due dispersi dopo due distinti incidenti causati da valanghe e forti nevicate sulle montagne himalayane. La Farnesina ha confermato che gli alpinisti italiani Alessandro Caputo, Stefano Farronato e Paolo Cocco sono deceduti, mentre sono ancora ricercati — con “scarse possibilità di sopravvivenza” — _ Marco Di Marcello _e Markus Kirchler. Altri cinque connazionali risultavano inizialmente “non reperibili”, ma si è poi appreso che stanno bene e fanno rientro.
Due le zone teatro degli eventi: il 28 ottobre il gruppo di Caputo e Farronato sul Panbari Himal (6.887 m), e il 3 novembre un’altra valanga al campo base dello Yalung Ri (5.630 m) che ha travolto Cocco e i due dispersi. Le condizioni meteorologiche estreme, in particolare la tempesta generata dal ciclone Montha, hanno reso i soccorsi difficili e i recuperi estremamente rischiosi.
La spedizione “Panbari Q7”, partita in ottobre verso la vetta del Panbari Himal, composta da Caputo (28 anni), Farronato (50 anni) e capocordata Valter Perlino (64 anni), affronta la montagna poco battuta della regione di Gorkha. Il 28 ottobre vengono sorpresi da una nevicata imprevista al Campo 1 (circa 5.000 m): da quel momento perdiamo i contatti.
Il 4 novembre le autorità nepalesi confermano la morte di Caputo e Farronato: i corpi sono stati rinvenuti sepolti nella neve nei pressi della tenda. Il terzo membro Perlino è stato salvato in elicottero qualche giorno prima grazie a un infortunio che lo aveva tenuto al campo base.
Il 3 novembre, nella zona dello Yalung Ri (Valle di Rolwaling), un’altra valanga travolge un campo base internazionale dove erano presenti Cocco (41 anni), Di Marcello (37) e Kirchler (29). Cocco muore; Di Marcello e Kirchler risultano dispersi.
Contemporaneamente, altri cinque italiani impegnati in trekking nella zona del Makalu risultano inizialmente “non reperibili”. Dopo un giorno di allarme, confermano di stare bene: il gruppo è in contatto, si trova in una regione remota con difficoltà di comunicazione, e tornerà a Kathmandu l’8 novembre.
Le autorità italiane (Farnesina, Consolato a Calcutta competente per Nepal) e nepalesi sono impegnate nelle operazioni di soccorso e recupero, ma la messa in sicurezza dei siti, la neve alta, la visibilità ridotta e l’altitudine elevata rendono tutto complicato.

Le montagne, la neve e il rischio
Il Panbari Himal non è una meta consueta: una cima poco frequentata, “tra i 6.000 e i 7.000 metri”, con percorso tecnico e condizioni delicate. I membri dell’equipe italiana lo avevano definito “un quasi settemila, che abbiamo deciso di chiamare Q7”. Farronato era alpinista esperto con 18 spedizioni estreme all’attivo; Caputo maestro di sci; Cocco fotografo ed ex vicesindaco.
Le condizioni meteorologiche hanno giocato un ruolo cruciale: il ciclone Montha, che ha colpito l’Himalaya nepalese tra il 1° e il 3 novembre, ha portato nevicate fuori stagione, accumuli e valanghe. Nello Yalung Ri la valanga ha travolto il campo base, seppellendo decine di metri di neve; nei dintorni del Panbari i soccorritori hanno scavato per ore prima di trovare i corpi.
In queste condizioni, l’elicottero di soccorso ha dovuto fare i conti con visibilità limitata, vento forte, zone remote non compatibili con atterraggio diretto. La fusione tra altitudine, meteo, terreno e isolamento rende ogni operazione ad altissimo rischio.
Le vittime e i dispersi: chi erano
Stefano Farronato: arboricoltore della provincia di Vicenza, 50 anni, alpinista estremo, decise di dedicare la vita alla montagna e all’esplorazione. Aveva già scalato Ande, Patagonia, Groenlandia.
Alessandro Caputo: 28 anni, milanese, maestro di sci in Svizzera, studente di giurisprudenza. Era il più giovane della spedizione e aveva scelto il Panbari come sfida.
Paolo Cocco: 41 anni, fotografo di Fara San Martino (Chieti), appassionato di montagna e documentarista delle vette.
Marco Di Marcello: 37 anni, biologo e guida alpina abruzzese residente in Canada, risultante disperso.
Markus Kirchler: 29 anni, altoatesino di San Genesio (Bolzano), ex atleta, ora alpinista, anch’egli disperso.
Le famiglie, le comunità locali e l’intero mondo della montagna in Italia sono sotto shock: vite diverse, percorsi diversi, ma unite da una grande passione e da uno spirito libero.

Alpinismo e rischio nell’Himalaya
La stagione autunnale in Nepal è più rischiosa rispetto a quella primaverile: la finestra per la vetta è stretta, il freddo avanza, le tempeste si intensificano. La valle del Manaslu, la valle del Rolwaling, montagne poco battute – come il Panbari – presentano condizioni imprevedibili. Le valanghe, in particolare dopo nevicate massicce, possono colpire anche tentativi apparentemente ben pianificati.
I numeri parlano: l’attuale “evento neve / valanga Nepal 2025” risulta tra i più gravi dell’autunno himalayano, con almeno nove morti accertati e diverse decine di soccorsi richiamati. Il tema della sicurezza nelle spedizioni, della scelta della vetta, dei servizi di supporto e di emergenza torna al centro del dibattito.
Negli anni, molti alpinisti italiani e stranieri hanno perso la vita in Nepal per condizioni estreme. Il “terzo polo” della montagna (dopo Alpi e Ande) offre meraviglie, ma anche fragilità: organizzazione locale, autorizzazioni, guide sherpa, medevac, comunicazione satellitare, condizioni ambientali estreme.
Le operazioni di soccorso
I soccorsi sono proseguiti tra difficoltà estreme. In uno dei casi, i sommozzatori digitali hanno utilizzato GPS, detector per valanghe, elicotteri e truppe sherpa. Al Panbari, i corpi sono stati rinvenuti a circa 2,5 metri sotto la neve, in una tenda travolta. Al Yalung Ri, il terreno instabile ha costretto a sospendere temporaneamente le ricerche.
Le comunicazioni hanno rappresentato un altro collo di bottiglia: l’altitudine elevata, la rete mobile inesistente, la dipendenza da comunicazioni satellitari hanno rallentato la catena di comando. Il consolato italiano e la Farnesina sono intervenuti attivando “unità di crisi”, ma hanno sottolineato che “la cooperazione con le autorità nepalesi è onerosa” nelle zone remote.
Il recupero delle salme e la loro restituzione all’Italia è un processo lungo e complesso: permessi amministrativi, trasporti elicotteristici da località isolate, condizioni meteo in continuo mutamento. Nel frattempo le famiglie attendono, le comunità fanno cerchio.

Perché scegliere montagne poco battute come il Panbari o il Yalung Ri? Il fascino dell’ultimo confine alpino è forte, ma l’accesso, la logistica e i rischi sono maggiori.
Condizioni meteo e previsioni: quando un ciclone (Montha) attraversa Nepal, anche in autunno, le nevicate diventano eccezionali. Le spedizioni dovrebbero tenerne conto, ma spesso la pressione al successo, la data fissata, il calendario, prevalgono.
Una spedizione remota richiede back-up tecnico, meccanismi di soccorso pronti, elicotteri disponibili, guide sherpa esperte. Quanto è stato predisposto? Cosa è mancato?
L’alpinismo è per definizione avventura, ma dov’è il confine tra sogno legittimo e rischio evitabile? In questo caso, la tragedia richiede un bilancio: non per colpe, ma per imparare.
Impatto emotivo e sociale: le vittime erano vite che avevano scelto la montagna, che nel sostanziale hanno vissuto per quel momento. Per le famiglie, il dolore è indicibile. Per la comunità degli alpinisti italiani, l’allarme riporta alla fragilità del sogno.

La morte in montagna — specialmente in un contesto così distante e remoto — lascia domande senza risposta. Ma lascia anche tracce: chi conosceva Farronato lo ricorda come “lo scalatore di alberi”, esploratore instancabile; Caputo aveva scelto una spedizione “quasi settemila” per una nuova sfida; Cocco documentava la montagna e la passione.
Il richiamo ora è a una riflessione più ampia: la montagna non chiede solo forza, ma rispetto. Non chiede solo passo, ma prudenza. La memoria dei cinque italiani morti può diventare stimolo per una maggiore consapevolezza: di altitudine, di meteo, di organizzazione.
Le spedizioni future — italiane e internazionali — guarderanno con più attenzione a questo episodio: al rischio neve, alle valanghe, alla logistica remota. I gruppi, le guide, le agenzie dovranno fare conto non solo sul sogno, ma sull’emergenza, sulla sicurezza, sulle condizioni locali.
Nelle vette himalayane dell’autunno 2025, la montagna ha restituito tre corpi e lasciato due tracce nel silenzio della neve. La tragedia degli alpinisti italiani in Nepal è un monito duro: quando la natura decide, anche i migliori piani e i sogni più forti possono essere travolti.
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