Jobpocalypse e giovani: tra allarmi, realtà e metamorfosi del lavoro

“La crisi del lavoro giovanile è la vera frontiera del cambiamento” – commentano da mesi osservatori, economisti e giovani stessi. E ora il termine Jobpocalypse (apocalisse del lavoro) è diventato parola d’ordine: evoca una trasformazione radicale nel mercato occupazionale, soprattutto per chi entra da poco. Ma quanto c’è di allarme, quanto di realtà, e quali sono le traiettorie possibili? In questo servizio cercheremo di restituire un quadro aggiornato e articolato: le evidenze empiriche, i casi italiani e internazionali, le storie dietro le statistiche, i rischi e le opportunità.
Percezioni e narrazioni
Quando si parla di “Jobpocalypse”, si intende l’idea che l’automazione, in particolare l’intelligenza artificiale generativa, stia cancellando in massa i posti di lavoro — soprattutto quelli entry-level — prima ancora che i giovani possano entrarvi. È un concetto carico, che si nutre di paure, ansie e titoli sensazionalistici. Ma dietro queste iperboli ci sono laboratori di ricerca, studi pubblici e analisi empiriche che meritano attenzione.
Negli ultimi mesi, saggi e articoli hanno oscillato tra due estremi: “l’AI sta già distruggendo il lavoro per i giovani” e “non c’è alcuna apocalisse in corso”. Alcuni studi suggeriscono che, in settori molto esposti (programmazione, customer service, creazione di contenuti), giovani lavoratori stiano soffrendo un rallentamento nelle assunzioni tradizionali. In altri casi, l’impatto sembra ancora lontano o marginale.
Il dibattito, tuttavia, non è solo accademico: è anche generazionale. Diplomati, laureati, neoassunti raccontano che certe “fasi dell’ingresso” (stage, collaborazioni, assistentati) stanno cambiando forma. Le aziende sembrano chiedere competenze già alte, integrazione con tool AI, autonomia. Per molti giovani, l’orizzonte di un “primo lavoro” appare sempre più incerto, più liquido.
Cali per i giovani più esposti
Un recente studio condotto su dati di una grande società di elaborazione buste paga (ADP), focalizzato su lavoratori fra i 22 e i 25 anni in professioni ad alta esposizione all’IA (software developer, customer support, assistenza digitale), ha rilevato una contrazione occupazionale del 13% proprio in quegli ambiti. È una delle prime evidenze che suggeriscono che il fenomeno potrebbe già essere in corso su segmenti specifici.
L’analisi distingue tra ruoli in cui l’IA può automare compiti (quindi sostituire) e ruoli in cui l’IA è un supporto (augmentation). Il calo maggiore si rileva nelle occupazioni dove il potenziale di automazione è più elevato.
Dall’altro lato, ricerche più ampie suggeriscono che, al netto di questi casi, l’impatto dirompente generalizzato non si è manifestato. Alcuni studi mostrano che i settori esposti all’IA mantengono livelli occupazionali più alti o almeno non inferiori rispetto ad altri ambiti. In certi contesti, chi lavora in settori “esposti” guadagna mediamente di più, suggerendo che l’IA diventa strumento valorizzante, non solo sostitutivo.
Un altro contributo teorico importante avverte che, se l’IA-capitale supera una soglia critica rispetto al lavoro, potrebbe instaurarsi un circolo recessivo: riduzione della domanda di manodopera, riduzione della capacità di consumo, e quindi contrazione dell’economia generale. In questo scenario, la “distorsione da IA” potrebbe agire come freno cumulativo.
Infine, nei mercati digitali (freelance, piattaforme globali), l’adozione massiccia di modelli come ChatGPT ha già mostrato una diminuzione nella domanda per alcuni lavori di scrittura e traduzione, mentre i compiti più complessi, personalizzati o strategici emergono come residui resistenti.
Non tutto è apocalittico
Molti lavori “esposti” all’IA sono composti da molteplici compiti: l’IA può automatizzare solo una parte dei compiti, non l’intera mansione.
L’IA può potenziare, non solo sostituire: in molti casi diventa uno strumento che rende più produttivo il lavoratore umano.
L’effetto su occupazione totale può essere neutro o leggermente positivo: i guadagni in produttività e crescita potrebbero generare nuove professionalità e ricomposizioni.
L’“apocalisse” non appare ancora come un’evidenza incontestabile. Ma le crepe nel sistema di ingresso lavorativo giovanile cominciano a intravedersi.
Italia: un terreno già fragile
In Italia, la situazione del lavoro giovanile era precaria già prima dell’arrivo massiccio dell’IA: contratti atipici, precariato, part-time involontario, gap Nord–Sud, disallineamento scuola–mercato. Aggiungiamo l’effetto pandemia, la crisi energetica, i vincoli europei: il terreno era fertile per shock.
Le aziende italiane, spesso più piccole, hanno risorse limitate per investimenti tecnologici. L’adozione dell’IA procede a ritmi differenziati: molte realtà operano con modelli pilota, pochi investono su larga scala. Ciò significa che l’impatto, almeno per ora, è attenuato rispetto ai paesi con ecosistemi tech più consolidati.
Per i giovani che aspirano a lavorare in digital, comunicazione, marketing digitale, media, copywriting, l’IA è destinata a influire. Le richieste aziendali includono la conoscenza di tool AI, competenze data-driven, capacità di lavorare insieme a modelli generativi. Per chi non si adatta, il rischio è che quei settori siano meno accessibili.
In alcuni casi, i giovani segnalano che proposte di stage o contratti includono clausole legate all’uso di strumenti AI (es: “saper generare testi con modelli LLM”). Il confine tra “candidato che sa usare AI” e “AI come competitor” diventa sottile.
Infine, nella pubblica amministrazione, nel non profit, nei settori sociali — dove l’adozione AI è più lenta — la domanda di lavoro giovanile rimane legata a modelli tradizionali, con poca innovazione.
In altri paesi UE, in particolare quelli con ecosistemi tecnologici avanzati, l’impatto si fa più visibile.
In alcuni Stati nordici e nei Paesi Bassi si stanno sperimentando modelli di transizione: corsi di retraining su AI, politiche attive di accompagnamento, incentivi all’adozione inclusiva dell’IA.
In Germania, aziende del manifatturiero e del software stanno avviando progetti “human + AI”, in cui l’IA assiste il lavoro dei giovani tecnici, non lo sostituisce.
In Francia, scuole e università hanno iniziato a integrare corsi sull’uso critico degli LLM, fenomeni etici, “prompt engineering”, preparando i laureandi ai nuovi scenari.
Queste esperienze mostrano che la “resilienza” del lavoro giovane passa spesso per strumenti ibridi: essere in grado di usare l’IA piuttosto che esserne vittima.
Storie di giovani nel vortice
Dietro le tabelle statistiche, ci sono storie. Giovani che vedono i propri sogni professionali messi alla prova da algoritmi, richieste aziendali che mutano, offerte che si ridimensionano.
Sara, 25 anni, laureata in lettere moderne: dopo mesi di candidature tra copywriting e content marketing, ha ricevuto risposte che richiedevano “capacità di creare prompt per modelli generativi”. Ha deciso di frequentare un corso serale di prompt engineering per restare in gara.
Luca, 23 anni, ingegnere informatico: ha partecipato a due colloqui per ruoli junior di sviluppo software. In uno dei due, l’azienda gli ha detto che avrebbe testato il suo compito con un’IA: “Vediamo se il tuo codice è migliore di autogenerato”. L’ha abbandonata.
Gaia, 27 anni, laureata in marketing: svolge lavoretti freelance, traduzioni, interventi social media. Ma la concorrenza con generatori di testo è forte. Molti clienti chiedono “testi generati da IA con revisione umana”, per pagare meno.
Marco, 24 anni, laurea in economia: ha accettato un contratto part-time in amministrazione aziendale, dove all’inizio faceva entry tasks. Ora, l’azienda introduce software che automatizzano reportistica: il suo compito è ridotto e “assistito”. In prospettiva, teme di restare marginale.
Queste storie non dimostrano l’apocalisse, ma indicano un cambiamento d’epoca: il lavoro “giovane” non è più solo «tirocinio + crescita», ma ingresso in ecosistemi tecnologici, flessibilità, competenze ibride.
Non bastano le lauree. Serve che la formazione — universitaria, ITS, corsi post-lavoro — includa competenze AI, “prompt literacy”, etica digitale, uso critico dei tool. Bisogna potenziare politiche di aggiornamento permanente, anche per chi è già occupato.
L’IA si integra come supporto: molti lavori evolvono, non scompaiono. I giovani diventano “superutenti AI”, dotati di competenze ibride. L’occupazione “netta” resta stabile o cresce moderatamente.
Verso una generazione adattiva
L’idea di una “Jobpocalypse” totale appare oggi eccessiva: non abbiamo evidenza che l’IA stia già cancellando milioni di posti di lavoro giovanile nel mondo. Ma stiamo entrando in una fase densa di trasformazione. I giovani si trovano in mezzo a un bivio: diventare attori capaci di dialogare con l’IA, oppure restare spettatori esclusi. Il lavoro delle prossime generazioni sarà plasmato dalla capacità di integrare tecnologie, reinventare ruoli, progettare percorsi personalizzati.
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