9:29 am, 14 Dicembre 25 calendario

🌐 Battaglia alla Casa Bianca per un carattere tipografico

Di: Redazione Metrotoday
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Lo scontro sui font è diventato simbolo di una più ampia guerra culturale: il ritorno a Times New Roman, la censura del Calibri definito “troppo informale” e le ripercussioni sull’immagine istituzionale e sull’accessibilità comunicativa.

Quando un carattere diventa campo di battaglia

📌 La notizia è breve ma rumoreggia forte: negli ultimi giorni la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno riaperto un fronte inusuale della contesa politica americana — i caratteri tipografici usati nei documenti ufficiali. Quel dettaglio che i grafici e gli addetti alla comunicazione conoscono come “scelta tipografica” ha assunto una valenza simbolica e pratica: da una parte la tradizione e la “formalità” incarnata dai caratteri serif come il Times New Roman; dall’altra la modernità e l’accessibilità promossa da sans-serif come il Calibri, introdotto negli uffici pubblici con argomentazioni di leggibilità e inclusive design.

A pochi giorni dall’ordine interno che ha imposto il ritorno a Times New Roman per le comunicazioni diplomatiche, corridoi e mailbox si riempiono di commenti che oscillano tra l’ilarità per la battaglia sui font e la serietà dell’effetto politico: non è mera ossessione grafica, ma un segnale netto di come un’amministrazione intenda rappresentarsi. La scelta tipografica è, in fondo, comunicazione: dice chi sei, come parli, a chi ti rivolgi.

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Dal dettaglio estetico al manifesto politico

In apparenza è un dettaglio tecnico — cambiare un’impostazione predefinita sui modelli di documento — ma lo sfondo è politico. La retorica che ha accompagnato l’ordine evidenzia la volontà di “ripristinare decoro e professionalità” nei documenti ufficiali, con argomentazioni che hanno poco a che vedere con la leggibilità e molto con la simbologia: il serif è autorevole, istituzionale; il sans-serif moderno è visto come informale, quasi populista.

🔎 Per comprendere la portata del gesto bisogna restituire al lettore la storia recente dell’uso dei font nelle istituzioni americane. Negli ultimi decenni diverse amministrazioni hanno curato la propria “brand identity” anche attraverso la tipografia: campagne presidenziali e siti istituzionali hanno adottato caratteri iconici (basta ricordare Gotham associato a campagne politiche contemporanee) per proiettare un’immagine. Passare da Calibri a Times New Roman non è solo una modifica tecnica: è un allineamento simbolico a un’immagine di Stato più classica, più “solenne”.

Dietro la scelta: politiche, estetica e accessibilità

L’argomento della leggibilità — spesso evocato a sostegno del mantenimento di sans-serif più spaziosi e con aperture maggiori — è stato prima tecnico e poi strumentalizzato. Calibri, disegnato per la leggibilità a schermo, era stato introdotto con moti di modernizzazione e con insistiti richiami all’accessibilità: per chi ha difficoltà visive o disturbi della lettura, certe forme e spaziature possono fare la differenza. L’ordine contrario ha fatto emergere un punto critico: quanto pesa l’accessibilità nelle scelte di governo quando scontrata con priorità politiche ed estetiche?

Esperti di design e attivisti per i diritti dei disabili hanno osservato che la leggibilità non è una scelta neutra. Le scelte tipografiche incidono su chi riesce a leggere facilmente comunicazioni pubbliche, modulano l’efficacia dell’informazione e determinano — in termine pratico — l’accesso al sapere istituzionale. Polverizzare queste argomentazioni con il pretesto del decoro rischia quindi di sminuire un principio che, per motivi pratici e morali, meriterebbe attenzione.

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Reazioni: designer, burocrati e giornalisti

La decisione ha scatenato reazioni a più livelli. I professionisti della comunicazione pubblica hanno messo in guardia sul costo pratico dell’operazione: aggiornare template, forme, documenti storici e sistemi informatici non è neutro né gratuito. Nei ministeri e negli uffici, migliaia di modelli e pratiche quotidiane dovranno essere adeguati in tempi stretti, imponendo una mole di lavoro amministrativo spesso sottovalutata quando si annunciano cambi di linee guida.

I designer di caratteri, alcuni dei quali hanno contribuito a far evolvere proprio quelli oggi contestati, hanno risposto con commenti pungenti e talvolta ironici. Per loro la discussione teorica è seria: un carattere non è “woke” o “MAGA”; è strumento di comunicazione costruito da artigiani e progettisti che conoscono leggi estetiche e tecnico-funzionali. Anche i giornalisti americani — soliti a trasformare ogni particolare in simbolo culturale — hanno trovato nel confronto sui font un prisma per raccontare molto di più: cambi di paradigma comunicativo, lotte interne alle amministrazioni, e la strategia di controllo dell’immagine pubblica.

Il ritorno al passato

Nel racconto politico il ritorno a Times New Roman è stato rappresentato come un gesto di “restauro” delle buone maniere istituzionali. Questa narrazione funziona perché rassicura una fascia di elettorato che invoca ordine, tradizione, autorevolezza. Ma ha anche un costo: quella stessa narrativa può essere letta come volontà di ridefinire l’accesso alla parola pubblica, di delimitare il campo estetico entro cui l’autorità si esprime. In altre parole, la disputa sui font è un frammento della più ampia guerra culturale che attraversa gli Stati Uniti.

Non si tratta di una novità assoluta: negli ultimi anni i font sono già stati terreno di contesa. Campagne elettorali, riforme comunicative e decisioni amministrative hanno spesso usato la tipografia per segnare distanze culturali e politiche. La storia delle scelte tipografiche alla Casa Bianca è fatta di cicli: innovazioni introdotte da una squadra di comunicazione passano poi sotto la lente di chi subentra, che può decidere di conservare, modificare o cancellare segni distintivi. Quella attuale è una tappa di questa dinamica, ma assume oggi la dimensione di battaglia mediatica perché la comunicazione digitale amplifica ogni dettaglio.

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Sul piano pratico, la scelta del carattere influenza più di quanto sembra. Documenti legali, comunicati diplomatici, fogli informativi, modulistica per servizi pubblici: tutto assorbe il cambiamento. Oltre ai costi di aggiornamento, c’è l’effetto sulla percezione esterna: partner internazionali, agenzie, giornali leggono nei documenti ufficiali segnali di serietà o di improvvisazione. Il font è un elemento della “voce” istituzionale, e come tale partecipa alla costruzione dell’autorevolezza.

L’altra conseguenza importante riguarda l’accessibilità: se un’amministrazione ridimensiona l’importanza di modelli tipografici pensati per facilitare la lettura, può acuire le barriere comunicative nei confronti di persone con disabilità. Questo solleva una domanda etica: la gestione dell’immagine pubblica può prevalere su diritti e pratiche inclusive? La risposta, finora, è stata affidata più alla retorica che all’analisi di impatto.

Dietro la decisione c’è un obiettivo più ampio: controllare la narrativa pubblica e riaffermare un’immagine istituzionale coerente con la base politica dell’amministrazione. Per chi governa, i dettagli contano: la coerenza visuale rafforza il messaggio e contribuisce a costruire una marca politica riconoscibile. Tale strategia è legittima — ogni leadership cura la propria immagine — ma il modo in cui si declina può segnalare priorità politiche: modernità e inclusione o ritorno alla tradizione e al formalismo.

La curiosità e l’attenzione su questo episodio non sono soltanto nazionali. Nel mondo della comunicazione pubblica molte amministrazioni osservano cosa succede negli Stati Uniti, perché le scelte operative e simboliche di Washington spesso diventano riferimento. La vicenda ricorda che anche i dettagli apparentemente innocui della burocrazia possono declinare idee politiche e sociali che travalicano i confini: il font scelto da un governo può essere letto come manifesto di valori — e quindi replicato, criticato o contestato altrove.

La battaglia della Casa Bianca contro un carattere tipografico può far sorridere, ma il sorriso rischia di offuscare il punto centrale: siamo di fronte a una scelta che combina estetica, politica e diritti. Cambiare un font non è una pedanteria da grafici: è un atto comunicativo che parla di cosa uno Stato ritiene importante.

14 Dicembre 2025 ( modificato il 13 Dicembre 2025 | 13:38 )
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