Un sogno molto ambizioso: curare ogni malattia
Nell’era della medicina 4.0, fra algoritmi che analizzano immagini biologiche, cellule che registrano il tempo del danno tissutale, e infrastrutture multimiliardarie, emerge un progetto che – se funzionasse come dichiarato – cambierebbe radicalmente l’approccio alle malattie: il progetto della Biohub – la rete di laboratori di ricerca promossa da Mark Zuckerberg e Priscilla Chan, che punta a «curare, prevenire o gestire tutte le malattie entro questo secolo».
Il progetto non è soltanto un sogno hollywoodiano: è la traduzione concreta di un impegno filantropico e tecnologico, che sta ridefinendo – con metodo da Silicon Valley – i confini della ricerca biomedica.

Tutto parte nel 2015, quando Zuckerberg e Chan annunciano di destinare il 99% delle proprie azioni di Meta Platforms (ex Facebook) alla loro iniziativa filantropica, la Chan Zuckerberg Initiative (CZI), con l’obiettivo esplicito di «promuovere il potenziale umano e promuovere l’uguaglianza».
Un anno dopo, nel settembre 2016, nasce la Biohub: una prima dotazione di 600 milioni di dollari viene annunciata per un centro di ricerca collaborativo fra le università della Bay Area (Stanford University, University of California, San Francisco, University of California, Berkeley) con l’idea di collegare biologia, ingegneria e tecnologia in un’unica «hub» chiamata Biohub.
L’intento era chiaro: cercare nuovi strumenti, nuove piattaforme, nuovi modi di fare ricerca per accelerare la scoperta medica e spingere verso il risultato epocale di gestire tutte le malattie.
Da “idea” a rete: le evoluzioni della Biohub
Nel corso degli anni la Biohub non è rimasta un singolo centro, ma si è trasformata in una rete (il “Biohub Network”) che comprende più sedi: San Francisco, Chicago, New York, ciascuna orientata a una sfida scientifica di lungo termine.
– A San Francisco si concentra su biologia cellulare, biologia quantitativa, mappe delle cellule, strumenti tecnologici per comprendere la malattia a livello microscopico.
– A New York l’orientamento è verso la bioingegneria del sistema immunitario: ideare tecnologie per far sì che le cellule immunitarie possano individuare la malattia nelle fasi più precoci.
– A Chicago il focus è sulle tecnologie che misurano l’infiammazione dei tessuti in tempo reale e altri strumenti che uniscono fisica, biologia e ingegneria per intervenire quando la malattia è ancora nella «fase nascosta».

Queste sedi sono coordinate nell’ambito della rete più ampia promossa dalla CZI, che ora ridefinisce il proprio ruolo. Recentemente Zuckerberg e Chan hanno annunciato che la Biohub sarà «il focus primario» della loro filantropia: le risorse saranno concentrate su questa rete scientifica.
In questa fase si parla di scalare la capacità informatica, di usare intelligenza artificiale e “celle virtuali”, cioè modelli digitali di biologia che possano simulare malattia e terapia, e di strumenti di imaging avanzati per osservare ciò che prima era invisibile.
Cosa fanno concretamente i laboratori
Una delle prime grandi iniziative della Biohub è stata la Cell Atlas: una mappa delle cellule umane che descrive in dettaglio che tipi di cellule compongono gli organi e come si comportano in salute o in malattia. L’obiettivo: capire la malattia alla radice, a livello cellulare, prima ancora che compaiano sintomi.
Parallelamente, i laboratori Biohub stanno sviluppando tecnologie di imaging multimodale, cioè microscopi e strumenti che osservano la vita delle cellule con risoluzione e velocità mai viste prima — e le elaborazioni dati con algoritmi di “machine learning”/IA che possono scoprire pattern invisibili a occhio umano.
Ad esempio è stato annunciato un “grand challenge” per sviluppare tecnologie di imaging all’interno della rete, che uniranno la sede di San Francisco e l’CZ Imaging Institute per «osservare le cellule in azione».
Questi progetti non sono confinati a modelli animali: l’intento è spingere verso la medicina umana. In parte ciò significa costruire “celle virtuali” — modelli computazionali della biologia — che possano accelerare la scoperta di farmaci e interventi.

IA, biologia, medicina
Una caratteristica distintiva del progetto Biohub è la convergenza tra biologia e intelligenza artificiale. In un momento storico in cui l’IA accelera in ogni settore, anche la medicina vuole essere trasformata: Biohub punta a creare modelli digitali delle cellule, strumenti che possano “pensare” come un biologo, sfruttare gigadati, immagini ad altissima risoluzione, multi‑omica (genetica, proteomica, trascrittomica) per rivelare dinamiche biologiche complesse.
In questo senso, l’approccio «data + strumento + piattaforma» (anziché solo “finanziamento tradizionale”) è un segno dei tempi: l’obiettivo è ridurre il tempo che va dalla scoperta al trattamento, tentare di compiere «decenni di scoperta in mesi».
Questo elemento mostra anche perché la Biohub si differenzia dai tradizionali laboratori universitari o dalle fondazioni di ricerca: ambisce a essere più veloce, più integrata, più “start‑up di ricerca” che non solo grant‑based.
Perché focalizzarsi sul network
La scelta dei promotori di concentrare le forze sulla Biohub in questo momento non è casuale: l’avanzamento dell’IA, della biologia sintetica, della genomica, della microscopia avanzata, dei big data rende plausible – se non ancora certa – una svolta.
Inoltre, i promotori stessi annunciano che i risultati più misurabili sono arrivati dalla Biohub rispetto ad altre iniziative filantropiche (scuola, equità, politica). Per questo Zuckerberg e Chan decidono di mettere la Biohub “al centro” del proprio impegno.
Il network cresce: non è più solo la Bay Area, ma Chicago e New York, e forse in futuro altri luoghi. Il modello è quello della “infrastruttura” di ricerca: laboratorio + dati + intelligenza artificiale + collaborazioni universitarie.
Fra i campi d’applicazione: malattie infettive (virus emergenti, pandemie), malattie neurologiche (Alzheimer, Parkinson), malattie infiammatorie, cancro, malattie rare. Un esempio: la sede di New York lavora sull’ingegnerizzazione delle cellule immunitarie per scoprire segnali di malattia molto precoci — è un paradigma molto diverso dalla lotta alla malattia in stadio avanzato: è pre‑malattia.

Altri strumenti puntano a sviluppare sensori nei tessuti umani (Chicago) per «misurare l’infiammazione in tempo reale», interrogare i meccanismi che trasformano un tessuto sano in malato.
Tutto ciò suggerisce che, più che un farmaco miracoloso, la Biohub punta a costruire piattaforme che rendano possibile un salto nella medicina: da reattiva a preventiva, da tardiva a very early, da trattare a gestire.
Sebbene la Biohub sia un progetto statunitense, le implicazioni sono globali. Un salto nella capacità di fare ricerca significa che anche i sistemi sanitari europei, italiani, potrebbero beneficiarne. Se le piattaforme diventano open‑access, se i dati vengono condivisi, se la tecnologia è globale, allora il vantaggio non sarà soltanto per chi la finanzia. Ma è altrettanto vero che la democratizzazione dei benefici non è garantita.
In Italia, dove la ricerca biomedica spesso soffre di limiti strutturali, lo sviluppo di strumenti globali e collaborativi come quelli promossi dalla Biohub potrebbe essere una risorsa. Tuttavia, occorre vigilare: il rischio è che la “ricerca accelerata” rimanga “ricerca di nicchia” o che i risultati diventino proprietà privata, difficilmente accessibili.
La storia della Biohub è un racconto di ambizione, tecnologia, filantropia e scienza incrociata. È la versione 2.0 della ricerca medica: non più solo fondi alle università, ma infrastrutture, dati, algoritmi, collaborazioni trasversali.
Potremmo trovarci di fronte a un cambiamento epocale: malattie prima individuate che curate, terapie personalizzate costruite non in decenni ma in anni, strumenti che democratizzano l’accesso alla scoperta.
Al contempo, non possiamo ignorare che dietro la plausibilità tecnica ci sono limiti reali: la complessità della biologia umana, le barriere regolatorie, le disuguaglianze globali, le priorità di ricerca che spesso riflettono chi finanzia.

La Biohub non promette miracoli immediati, ma scommette su una generazione: che la medicina possa cambiare più in pochi anni di quanto sia cambiata in molti decenni. E in questo contesto, vale la pena tenere gli occhi su cosa accade a San Francisco, New York, Chicago… perché quello che lì viene sperimentato potrebbe domani arrivare anche in Italia e trasformare, più radicalmente di quanto immaginiamo, il nostro rapporto con la salute e la malattia.
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