La Cina punta all’autonomia tecnologica in 5 anni
Strategia, numeri e ambizioni di Pechino
Il nuovo piano quinquennale cinese non è solo un documento burocratico: è una dichiarazione di intenti che consegna alla politica industriale e alla strategia tecnologica un ruolo da protagonista assoluto nella partita geopolitica del prossimo lustro. L’obiettivo — ripetuto in termini chiari durante l’ultimo vertice del Partito — è accelerare la self-reliance scientifica e tecnologica della Cina, riducendo la dipendenza dalle importazioni nei settori strategici (semi-conduttori, intelligenza artificiale, quantum, energia pulita) e costruendo, in pochi anni, un ecosistema industriale più resistente alle pressioni esterne.
La strategia è a più livelli: finanziamenti pubblici massicci, incentivi fiscali per le imprese nazionali, rafforzamento dei centri di ricerca, spin-off universitari, regole che favoriscano l’“integrazione militare-civile” delle innovazioni, e una campagna diplomatica e commerciale pensata per difendere le catene di approvvigionamento interne. È un piano che mescola strumenti economici convenzionali e leve politiche — dal controllo diretto sui capitali alla stretta sui trasferimenti tecnologici — con una visione chiara: trasformare la Cina da fabbrica del mondo in una superpotenza tecnologica autonoma.

I pilastri della strategia
Chip e semiconduttori — Il cuore pulsante del progetto. Pechino intende costruire capacità interne lungo tutta la filiera dei semiconduttori: progettazione (EDA), materiali avanzati, attrezzature per la litografia e packaging. Il sostegno statale si traduce in fondi per i grandi poli di produzione, incubatori tecnologici e nella spinta ad attrarre — entro limiti eccessivi — competenze dall’estero. Negli ultimi anni centinaia di impianti sono stati annunciati o ampliati, e la Cina sta investendo anche in strumenti di produzione che fino a poco fa dipendevano quasi esclusivamente da poche aziende straniere.
Intelligenza artificiale e chip per AI — Le autorità sostengono la creazione di “stack” nazionali per l’AI: modelli, data center, hardware dedicato e soluzioni cloud-edge. L’intenzione è duplice: alimentare l’industria interna con infrastrutture sovrabbondanti e ridurre il rischio che blocchi all’export di tecnologia occidentale fermino lo sviluppo.
Ricerca di base e formazione — Non basta costruire impianti: servono università, laboratorio e ricerca di qualità. Il piano rilancia investimenti pubblici in ricerca fondamentale, borse e programmi di richiamo per scienziati e ingegneri all’estero, con l’obiettivo di arginare la fuga di talenti e creare cluster d’eccellenza in aree strategiche.
Sovranità digitale e catene locali — La Cina mira a far crescere software, supply chain e servizi entro confini più “protetti”: piattaforme cloud proprietarie, sistemi operativi e applicazioni critiche che non dipendano da fornitori esteri, né da standard tecnologici soggetti a embargo. Questo obiettivo passa anche attraverso politiche di procurement pubblico e normative che privilegiano soluzioni nazionali.

Il piano non resterà lettera morta: i documenti ufficiali e le decisioni prese negli ultimi mesi indicano una disponibilità a erogare capitali, fondi sovrani e incentivi per decine o centinaia di miliardi di dollari nei prossimi anni. A questo si aggiungono progetti locali che offrono terreni, energia scontata e sgravi a chi costruisce fabbriche hi-tech. Su scala aggregata, la mossa assomiglia a una nuova fase di “industrial policy” che mescola capitale pubblico e partnership con grandi gruppi privati nazionali.
Il contesto geopolitico e le pressioni esterne
La spinta verso l’autonomia è figlia di una dinamica storica recente: l’inasprimento dei controlli sulle esportazioni di tecnologia da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati ha mostrato i limiti di catene globali basate sulla specializzazione geografica. Divieti, “guardrails” agli investimenti e restrizioni su strumenti critici — in particolare attrezzature per la produzione di chip avanzati — hanno reso evidente quanto la vulnerabilità tecnologica sia anche una vulnerabilità strategica. In questo senso, la Cina interpreta la corsa all’autonomia come una necessità non solo economica, ma di sicurezza nazionale.

I risultati non mancano: la crescita delle capacità produttive di wafer, i progressi di alcune imprese nell’EDA e nella packaging avanzata, l’emergere di un ecosistema di fornitori locali sono segnali tangibili. Manifestazioni e fiere dedicate all’industria mostrano prodotti e prototipi che fino a pochi anni fa non erano disponibili in Cina. Tuttavia, restano limiti non banali: la produzione dei macchinari più avanzati (EUV), le fasi più complesse della litografia e alcune chimiche critiche continuano a dipendere da poche aziende straniere. Superare questi “colli di bottiglia” richiederà tempo, ingenti investimenti e — non meno importante — innovazione fondamentale.
Competitività e rischi
Vantaggi: capacità di mobilitare risorse pubbliche su larga scala, integrazione tra ricerca e industria, mercati interni vasti che consentono economie di scala, e una catena locale già sviluppata in molti segmenti. Rischi: allocazione inefficiente del capitale, concentrazione di potere politico che può soffocare l’innovazione bottom-up, e una competizione internazionale che potrebbe tradursi in contromisure o nuove barriere commerciali.
Un possibile effetto secondario da monitorare è l’accelerazione della frammentazione tecnologica globale: se i blocchi si consolidano — uno guidato dagli Stati Uniti e dai suoi partner, l’altro dalla Cina — il mondo potrebbe vedere standard e infrastrutture divergenti, con costi maggiori per le imprese e per i consumatori.

Per aziende e governi europei la sfida è duplice: adattarsi a un attore mondiale più autonomo e simultaneamente proteggere gli interessi economici locali. La risposta europea potrebbe passare per investimenti in ricerca congiunta, diversificazione delle catene di fornitura e maggiore coordinamento politico per evitare dipendenze critiche. Allo stesso tempo, la presenza di una Cina tecnologicamente più autonoma può aprire mercati e opportunità di collaborazione in settori non sensibili.
Cinque anni possono non bastare per colmare gap tecnologici profondi, ma sono un arco temporale utile per consolidare infrastrutture, sviluppare competenze e mettere a regime politiche industriali. La Cina conosce bene questa dinamica: gli step rapidi e coordinati possono trasformare obiettivi ambiziosi in risultati concreti o, almeno, in una maggiore resilienza.
La posta in gioco è alta: se Pechino riuscirà a costruire una filiera tecnologica più autosufficiente, il paesaggio geopolitico e industriale mondiale cambierà. Se fallirà, gli investimenti — ingenti e pervasive — rimarranno un monito su quanto sia difficile trasformare la potenza economica in indipendenza tecnologica completa. In entrambi i casi, l’Europa e l’Italia dovranno leggere con attenzione le mosse di Pechino e reagire con strategie chiare: non più soltanto difensive, ma anche orientate all’innovazione e alla collaborazione intelligente.
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