La faida dentro il rap italiano sul conflitto a Gaza

Un’esplosione di rabbia scuote in queste ore il panorama dell’hip hop italiano. Al centro della polemica ci sono due nomi molto noti della scena: Ghali e Clementino, che hanno lanciato accuse durissime contro colleghi che, finora, si sono astenuti dal commentare la tragedia in corso a Gaza. Il motivo della contendere? Il silenzio — che per loro non è semplice discrezione, ma complicità.
“Il rap è morto”: l’invettiva di Ghali
In una serie di post fitti e rabbiosi su X nei giorni dell’ultimo sciopero nazionale per la Flotilla, Ghali ha definito il rap in Italia agonizzante, quasi defunto: «Il silenzio dei rapper ha ucciso il genere». Ha attaccato chi non ha preso posizione sul conflitto in Palestina, denunciando tre motivazioni che secondo lui giustificherebbero l’omertà:
– Disinteresse o ignoranza: «Non vi interessa, non è nel vostro algoritmo … avete un’idea confusa su chi siano i “cattivi” e i “buoni” da decenni»;
– Supporto implicito al genocidio: «Sostenete il genocidio e sì, sostenerlo vuol dire anche semplicemente non schierarsi»;
– Paura del mercato e del consenso: «Avete paura di perdere soldi, posizione e lavoro».
Ghali non risparmia nemmeno i brand, i big della musica e gli sponsor che, a suo avviso, frenano gli artisti: «Tacete per gli sponsor — se lo fate siete per il genocidio».
La sua critica è radicale: «Se sei un rapper e non parli di Palestina non puoi definirti tale. Puoi venderti del tutto». E infine una frase che non lascia dubbi: «Supportare la Palestina è un onore che non tutti possono avere».
Le sue parole, virali sui social, mostrano un forte disappunto verso una scena che egli ritiene inerme.
Il contrattacco di Clementino: “Mettere la faccia o tacere per sempre”
Poco dopo, Clementino ha rilanciato il fuoco contro la cosiddetta “classe dei rapper da classifiche”. In un post carico di tono polemico, ha detto:
«Esponetevi su Gaza o non proferite la parola hip‑hop»:
«Potete avere tutti i platini, tutte le collane d’oro, andare alle sfilate di moda, ma se non siete capaci di parlare di ciò che conta non siete nulla».
Poi ha aggiunto parole più dure: «Siete immondizia! … state troppo a cazzi vostri e non vi esponete perché poi perdete qualcosa».
E chiudendo: «Free Palestina».
Clementino fa appello ai valori fondanti dell’hip hop — la coscienza sociale, la critica ai poteri forti — e rimprovera a molti colleghi di aver rinunciato ai principi del genere. Il suo intervento è breve ma incisivo, e non ha ricevuto per ora repliche pubbliche da coloro che sono stati sottoposti a critica.
Radici recenti di impegno pubblico
Non è la prima volta che Ghali interviene con forza sulla questione palestinese. Già al Festival di Sanremo 2024, durante la sua performance del brano Casa mia, fece pronunciare da un pupazzo-alter ego la frase “stop al genocidio”. L’episodio provocò una reazione diplomatica dell’allora ambasciatore israeliano in Italia, generando polemiche sulla legittimità politica di Sanremo.
In prima serata, Ghali replicò che se non era possibile parlare di Gaza lì, dove avrebbe dovuto farlo? L’argomento, per lui, non era un vezzo ideologico, ma una responsabilità morale.
Ancora, in vari momenti successivi, ha denunciato episodi di censura: ad esempio, sarebbe stato escluso da un evento per aver richiesto un minuto di silenzio per la Palestina, e avrebbe ricevuto limitazioni nella diffusione di contenuti legati alla Striscia.
Queste posizioni non sono condivise da tutti e hanno generato divisioni anche nel mondo della musica italiana, con artisti che difendono il diritto all’astensione politica e altri che non esitano a schierarsi.
L’arte, il silenzio e la guerra
Il caso italiano si inserisce in una tensione ben più ampia, che sta emergendo in molti ambienti artistici globali. In vari paesi, musicisti, attori, creativi sono stati chiamati a prendere posizione sul conflitto israelo‑palestinese, e molti lo hanno fatto, ma non senza difficoltà.
In contesti culturali dove libertà d’espressione e interessi commerciali si intrecciano, il silenzio è spesso vissuto come un compromesso dettato da pressioni politiche, timori di boicottaggio, o complicazioni diplomatiche. In altri casi, artisti affermano che pronunciare parole nette possa ingaggiare la carriera e aumentare la visibilità, con un prezzo personale non trascurabile.
In Italia, la discussione sul ruolo dell’artista non è nuova: storicamente, molti rapper hanno promosso temi sociali, ribellione, denuncia delle ingiustizie. Ma oggi la posta è alta: Gaza è diventata simbolo e linea di faglia tra chi ritiene che l’assenza di parola sia un cedimento morale, e chi sostiene che l’arte debba restare autonoma, lontana da impegni obbligatori.
Cosa dicono e non dicono i colleghi
Al momento, non si registra una risposta univoca. Alcuni artisti si limitano a commenti elusivi, altri tacciono del tutto — il che, nel contesto odierno, equivale a stare nel mezzo. Qualcuno ha preferito enfatizzare il rischio di schierarsi in modo irrevocabile; altri, la complessità della storia che supera la comprensione di chi non è parte del conflitto.
I sostenitori degli artisti più cauti sostengono che l’impegno politico non debba diventare obbligatorio: l’espressione artistica non deve essere asservita al dovere di schierarsi. Altri obiettano che, in momenti straordinari come questo, il silenzio ha un significato. E per Ghali e Clementino, quel significato è inaccettabile.
Silenzio, complicità e strategia
Dietro la polemica si delinea una questione centrale: il confine tra espressione individuale e responsabilità collettiva. Quando un conflitto chiama, il silenzio può essere calcolato come scelta strategica — ma può anche essere interpretato come un sostegno tacito.
Nel caso di Gaza, dove le vittime civili includono migliaia di bambini e dove i mezzi di comunicazione locali sono sotto attacco, chi tace lascia che la narrazione venga monopolizzata da chi ha potere e mezzi militari. Chi non si espone, in questo contesto, rischia di delegittimare la verità altrui.
D’altra parte, alcuni artisti hanno argomentato che un impegno visibile, eccessivo o approssimativo, può essere ridotto a gestualità, speculazione o strumentalizzazione. Non è solo una questione di “dire qualcosa”, ma di “come” e “quando” — e soprattutto di coerenza personale.
Uno spartiacque culturale
La furia moralistica di Ghali e Clementino non è solo un attacco individuale: è un segnale che qualcosa di più profondo sta emergendo. L’arte, in tempi di crisi, è tornata a interrogarci sul valore della visibilità, della verità, della responsabilità. Non si tratta più solo di mettere un brano in playlist o apparire su TikTok, ma di ridefinire il codice etico dell’essere artista nel XXI secolo.
In Italia, dove la coscienza politica giovanile è sempre stata vivace, la questione resta aperta: quanto può (o deve) l’arte prendersi carico delle questioni globali? E quando l’assenza di parola è già un gesto politico?
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