🌐 Thailandia‑Cambogia e i “nuovi venti di guerra”
La nuova escalation
📌 Secondo fonti militari thailandesi, nella notte di lunedì l’esercito ha lanciato raid aerei contro installazioni militari in territorio cambogiano, come rappresaglia a un attacco attribuito a forze di Phnom Penh. Le autorità di Bangkok hanno parlato apertamente di “ritorsione” e, contestualmente, il premier thailandese Anutin Charnvirakul ha dichiarato che «l’accordo di pace firmato a ottobre» è da considerarsi annullato.
Le autorità cambogiane, da parte loro, hanno respinto le accuse, definendo “false” le giustificazioni thailandesi e denunciando una escalation protratta: “provocazioni continue da parte di Bangkok” — recita un comunicato del ministero della Difesa di Phnom Penh.
Il bilancio è drammatico: almeno sette civili cambogiani hanno perso la vita, con venti feriti e decine di migliaia di sfollati in entrambe le aree di confine. L’esercito thailandese conferma la morte di uno dei suoi soldati e circa 29 feriti in azioni che, secondo Bangkok, avrebbero coinvolto l’uso di razzi e droni da parte cambogiana.
Le immagini circolate mostrano intere comunità in fuga, rifugi improvvisati, e la paura che avvolge popolazioni civili già provate da mesi di incertezza.
L’accordo di pace svanito in un lampo
Un tentativo fallito di tregua
Nel luglio 2025, dopo giorni di scontri — con circa 43 morti e oltre 300.000 sfollati — i due Paesi avevano avviato negoziati per una tregua, mediata da paesi vicini. Il 26 ottobre, durante un vertice in Malesia, venne firmato un accordo che prevedeva il ritiro di armi pesanti, il disarmo, la deminazione e il ritorno alla normalità nel breve termine.
L’intesa includeva anche il rilascio di 18 prigionieri cambogiani detenuti in Thailandia, un segnale simbolico di fiducia reciproca.
Il trattato però nascondeva fragilità profonde: non risolveva le radici della disputa territoriale che risalgono a cartografie coloniali e rivendicazioni sull’area contesa — soprattutto attorno ai siti sacri e ai templi al confine.
Inoltre, il ritiro delle armi e la deminazione — passaggi chiave della pace — hanno subito ritardi, secondo la parte thailandese incolpata: l’incidente di novembre con una mina esplosa durante una pattuglia nella provincia di Sisaket ha fatto deragliare ogni fiducia residua.
Già in quella fase Bangkok aveva sospeso l’attuazione dell’accordo, denunciando mancata trasparenza e rischi per la sicurezza nazionale.
Una frontiera contesa da più di un secolo
🔎 Il confine tra Thailandia e Cambogia è soggetto a dispute che affondano le loro radici all’epoca coloniale: trattati del 1904–1907 stabilirono confini basati su mappature rudimentali, con confini poco precisi e spesso contestati da entrambe le parti.
E anche dopo che nel 1962 la corte internazionale riconobbe la sovranità cambogiana su alcune aree (compresi templi), la questione non si è mai chiusa: le comunità locali, il nazionalismo, l’equilibrio politico nella regione hanno mantenuto vivo il conflitto, in forma latente o aperta.
Negli ultimi decenni, anche dopo periodi di tensione e conflitti sporadici, era emersa la speranza — con la mediazione regionale e internazionale — di un accordo duraturo. Ma la ridefinizione dei confini, la gestione delle aree demilitarizzate e la convivenza delle comunità civili si sono rivelate sfide difficili da affrontare.
Crisi umanitaria e instabilità regionale
Sfollati e esodo di civili
La ripresa delle ostilità ha provocato una nuova ondata di profughi interni: migliaia di famiglie hanno abbandonato case e campi per cercare riparo in aree ritenute sicure — dentro la Thailandia o in Cambogia. La mobilità forzata in condizioni incerte rischia di generare una crisi umanitaria, con carenza di servizi, sostegno, sicurezza.
Danni economici e instabilità delle rotte commerciali
Le province di frontiera, da lungo tempo crocevia di commercio, agricoltura e scambi transfrontalieri, rischiano collassi economici. L’interruzione dei punti di passaggio terrestri mina la vita di comunità che dipendono dal commercio e dalla logistica. Alcune analisi preliminari stimano una perdita potenziale di miliardi di baht se il conflitto dovesse protrarsi.
Effetti geopolitici: l’ombra di potenze regionali e influenza internazionale
Il collasso del tentativo di pace mediato anche dagli Stati Uniti — con interventi e pressioni commerciali — espone una debolezza nella diplomazia multilaterale. Alcuni osservatori temono che la crisi al confine diventi terreno di rivalità più ampie, con attori regionali pronti a sfruttarla per rafforzare influenza su Hanoi, Pechino o altri paesi del Sud‑Est asiatico.
Perché la pace ha fallito
La rapida ritirata dall’accordo di ottobre mette in luce una realtà dolorosa: la pace, se non affronta le cause profonde del conflitto — confini dibattuti, questioni territoriali, minoranze, compensazioni — ha vita breve.
Alcuni elementi centrali emergono come indispensabili per evitare nuovi cicli di violenza:
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Mappe del confine chiare e condivise, accettate da entrambe le parti, con supporto internazionale e monitoraggio indipendente.
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Processi di deminazione trasparenti e verificabili, con coinvolgimento di ONG e organismi neutrali, per garantire la sicurezza delle comunità.
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Un piano di ricostruzione socio‑economica per le aree di frontiera, per sostenere popolazioni locali e offrire alternative sostenibili all’instabilità.
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Dialogo e cooperazione regionale, evitando che dispute locali diventino oggetto di strumentalizzazioni geopolitiche.
Senza questi passaggi, ogni tregua rischia di trasformarsi — come oggi — in breve interludio prima di un nuovo ciclo di violenza.
Tra speranze di pace e allarme escalation
Oggi, la situazione è al collasso: l’accordo di ottobre è considerato “nullo” da Bangkok, le armi risuonano di nuovo lungo la frontiera, e migliaia di persone vivono nella paura.
Ci sono segnali preoccupanti: il ricorso a bombardamenti aerei, l’uso di razzi e droni, la militarizzazione delle zone di confine, la chiusura delle vie di comunicazione.
Ma c’è anche la possibilità — remota, ma concreta — che la comunità internazionale, le organizzazioni regionali e le diplomazie tornino a insistere su una soluzione duratura. Solo che stavolta, se non si affrontano le cause profonde, ogni nuovo accordo rischia di essere già “decaduto all’atto della firma”.
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