🌐 Il “Piano Trump” non decolla: un bivio per la Striscia di Gaza
Alla fine di settembre 2025, Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu hanno reso pubblica una proposta articolata in 20 punti per porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza.
I cardini principali:
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Un cessate il fuoco immediato, subordinato all’accettazione del piano da parte di Israele e — in teoria — di Hamas.
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Il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani (vivi o deceduti) entro 72 ore dall’accettazione formale del piano. In cambio, Israele libererebbe 250 detenuti con ergastolo e circa 1.700 prigionieri di Gaza detenuti dopo l’inizio del conflitto, comprese donne e bambini.
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Le forze israeliane dovrebbero ritirarsi gradualmente verso una linea prestabilita (la cosiddetta “Linea Gialla/Rossa” nel documento della Casa Bianca), pur mantenendo una “perimetrazione di sicurezza” attorno alla Striscia.
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La governance di Gaza passerebbe a un comitato palestinese tecnocratico e apolitico, responsabile dei servizi civili, sotto la supervisione di un organismo internazionale denominato “Board of Peace”, presieduto da Trump. In un primo momento era previsto anche un ruolo per Tony Blair.
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Hamas verrebbe esclusa da ogni ruolo istituzionale e politico futuro nella Striscia.
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Parallelamente, si prevede una massiccia ricostruzione infrastrutturale ed economica, l’ingresso libero di aiuti umanitari tramite organismi internazionali (Onu, Croce Rossa, ecc.), la riapertura di valichi come quello di Rafah, e un tentativo di rilancio di Gaza come “territorio pacificato e ricostruito”.
In teoria, il piano aspira a trasformare Gaza da terra di guerra a territorio stabilizzato, misurando sicurezza, governance tecnocratica, ricostruzione e modernizzazione.
Il ruolo di Tony Blair: promessa, ritirata, controversie
🔎 All’annuncio del piano, Blair era indicato come membro eminente del Board of Peace. Un ritorno di un ex leader occidentale al centro della diplomazia mediorientale, stavolta come “governatore” ad interim di Gaza.
Blair in una dichiarazione pubblica definì la proposta “coraggiosa e intelligente”, lodando la visione di una pace che potesse garantire sicurezza a Israele e futuro stabile alla popolazione di Gaza.
Ma la sua nomina ha subito scatenato un’ondata di reazioni negative nel mondo arabo e palestinese. Per molti, la presenza di un occidentale — considerato già troppo legato alle vicende dell’invasione dell’Iraq — rappresenterebbe una nuova forma di tutela esterna imposta su un territorio che deve restare nelle mani dei Palestinesi.
Il risultato: nei giorni di tensione diplomatica, molti stati islamici e partner regionali hanno espresso forti riserve, tanto che secondo fonti recenti Blair sarebbe stato escluso dalla lista definitiva per il consiglio di pace.
Secondo la ricostruzione, al suo posto dovrebbe assumere un ruolo un comitato esecutivo guidato da ex funzionari di Onu, con compiti di supervisione insieme a un organismo tecnico – allontanando di fatto la figura “rappresentativa” ma conservando il coinvolgimento internazionale.
Questa virata conferma le difficoltà politiche — interne e internazionali — nel costruire un progetto di pace che abbia accettazione regionale e legittimità locale, anche all’interno delle stesse comunità palestinesi.
Perché il piano suscita dubbi, critiche, resistenze
Sfiducia palestinese verso un “governo esterno”
Molti leader palestinesi — membri dell’Autorità Palestinese, gruppi indipendenti, intellettuali e attivisti — guardano con sospetto al progetto. Temono che una governance “tecnocratica” sotto la supervisione di potenze esterne rischi di escludere i rappresentanti eletti o scelti dalla popolazione. Un’operazione percepita come imposizione piuttosto che come soluzione condivisa.
Separare la dimensione politica da quella amministrativa — come previsto dal piano — mette in discussione diritti politici, partecipazione democratica e rappresentanza della popolazione. Gaza rischia di diventare un “protettorato tecnico”, senza una guida politica autentica.
Difficoltà della smilitarizzazione e disarmo di Hamas
La proposta richiede lo smantellamento dell’apparato armato di Hamas. Ma il gruppo ha già rifiutato la sua esclusione dalla governance e non ha mostrato segnali chiari di voler cedere il proprio potere.
In assenza di un accordo credibile, la fase di transizione rischia di fallire, rendendo la tregua fragile e riaprendo la possibilità di nuovi scontri.
Il progetto rilancia un modello internazionale di “coppia controllore‑controllato”: potenze straniere che gestiscono un territorio strategico, in nome della “ricostruzione e stabilizzazione”. Per alcuni osservatori, è un ritorno al protettorato colonialista, che ignora diritti di sovranità e autodeterminazione.
Reazioni arabe: troppi ostacoli diplomatici
La partecipazione di Blair ha innescato il malcontento di molti paesi arabi e paesi a maggioranza musulmana, che vedono in lui un simbolo del passato interventismo occidentale (Iraq 2003). Questo ha reso complicata l’acquisizione di un consenso regionale necessario per garantire stabilità e legittimità internazionale.
Un’alternativa araba: il progetto parallelo di ricostruzione e reunificazione
Non tutti intendono abbandonare una soluzione con protagonisti palestinesi. Parallelamente al piano di Trump, un pacchetto alternativo — promosso da alcuni paesi arabi e sostenuto nel corso di vertici regionali — propone la ricostruzione di Gaza in 4 anni, con infrastrutture moderne, reintegrazione con la Cisgiordania e il ritorno dell’ente amministrativo unificato sotto la Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Questa proposta punta su:
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La ricostruzione edilizia e infrastrutturale senza spostamenti forzati di popolazione.
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Il mantenimento del parametro politico palestinese come base di legittimazione.
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Una potenziale soluzione a due stati, con Gaza e Cisgiordania legate sotto una medesima autorità.
In molti ambienti diplomatici e civili questa proposta è vista come più sostenibile, meno rischiosa sul piano della legittimità e più rispettosa della volontà della popolazione.
Da quando il piano è stato presentato, varie tappe hanno mostrato che l’implementazione non è affatto scontata:
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Il Parlamento israeliano — pur con alcuni settori favorevoli — ha evitato di votare un sostegno formale al piano, generando l’impressione di una maggioranza divisa.
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Le obiezioni arabe, la diffidenza di molti Palestinesi e il rifiuto netto di Hamas hanno complicato la costruzione di una coalizione regionale di supporto stabile.
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Il nodo del disarmo: finora, non c’è un accordo concreto su come, quando e con quali garanzie le armi di Hamas dovrebbero essere consegnate. Questo rende pericolosamente instabile qualsiasi impegno di ritiro e stabilizzazione.
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La ricostruzione, il flusso di aiuti e la “normalizzazione” – pur annunciati — restano fragili, con molti interrogativi sulla distribuzione degli aiuti, la rappresentanza politica, il ritorno delle persone nelle loro case.
In sostanza: il “piano Trump” vive oggi in una dimensione liminale — né in guerra, né in pace, in attesa di accordi che restano volatili e profondamente contestati.
Tra “governance internazionale” e diritto all’autodeterminazione
Il conflitto e la crisi a Gaza non si risolvono con un solo piano, per quanto ambizioso. La speranza per molti è che un’alternativa palestinese — unita, legittima e sostenibile — prevalga su modelli esterni imposti.
Se il progetto arabo‑palestinese riesce a trovare un giusto equilibrio tra ricostruzione, rappresentanza e stabilità, potrebbe offrire una via più rispettosa della dignità e della volontà della popolazione.
Il rischio concreto — se prevalgono logiche di potere, di controllo esterno e di ricostruzione filocapitalista — è che Gaza diventi una striscia di terra “gestita” da tecnocrati invisibili, senza diritti politici, senza democrazia, senza ritorno della voce dei suoi cittadini.
Ma contiene dentro di sé — in egual misura — il seme della speranza e quello del conflitto politico, etico e identitario.
La scelta che Israele, gli Stati Uniti, i paesi arabi e — soprattutto — i Palestinesi saranno chiamati a fare nei prossimi mesi potrebbe definire non solo il destino di Gaza, ma il significato stesso di pace, sovranità, giustizia e dignità in Medio Oriente.
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