🌐 INFARTI: in Italia 600 al giorno, e il 50% SENZA EVENTO PREGRESSO
I numeri choc: ogni giorno in Italia si verificano circa 600 infarti, la metà dei quali esplode in persone senza precedenti clinici noti (50% SENZA EVENTO PREGRESSO).
Tra emergenza sanitaria e opportunità terapeutiche, la cardiologia italiana chiede un cambio di paradigma: più prevenzione universale, screening mirati e accesso alle terapie innovative per ridurre il rischio già prima del primo episodio.
📌 Un dato sintetico e terribile: 600 infarti al giorno. Una cifra che, spiegano i cardiologi riuniti nei principali congressi nazionali, non è più soltanto espressione di morti e ricoveri, ma la fotografia di una nuova epidemia silenziosa.
Ancora più inquietante è il dettaglio: circa il 50 per cento di questi attacchi cardiaci riguarda pazienti «senza evento pregresso» — persone che fino a quel momento non avevano mai manifestato segnali di malattia cardiovascolare. È il primo campanello d’allarme di una sfida che riunisce ricerca, politica sanitaria e comportamenti individuali.
I centri di cardiologia raccontano una quotidianità fatta di pronto soccorso e angioplastiche d’urgenza: uomini e donne di ogni età che arrivano in ospedale con il cuore già compromesso. «Quello che vediamo — spiega un cardiologo di un grande ospedale universitario — è una porzione crescente di pazienti il cui primo quadro clinico è l’infarto. Questo impone di ripensare la prevenzione: non solo curare chi ha già avuto un evento, ma trovare chi è a rischio prima che l’evento arrivi».
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Perché succede? Le cause sono molteplici e intrecciate. Una parte consistente è attribuibile ai tradizionali fattori di rischio: ipertensione, diabete, obesità, fumo, sedentarietà e colesterolo elevato. Ma l’attenzione dei cardiologi sta crescendo anche su aspetti più sottili: la presenza di placche aterosclerotiche «silenti», l’infiammazione cronica, le disfunzioni metaboliche poco sintomatiche e perfino fattori ambientali e sociali — dallo stress lavorativo a dietetiche scelte di vita. Il risultato è un rischio cardiovascolare che, per molti, resta invisibile fino al giorno dell’infarto.
La risposta della comunità medica supera la tradizionale triade «statine-controllo glicemico-ipertensione». Negli ultimi anni la ricerca ha testato strategie per individuare e stabilizzare le placche aterosclerotiche prima che si rompano: esami di imaging più sofisticati (TAC coronarica con valutazione della calcificazione, ecografia vascolare), biomarcatori d’infiammazione e strumenti prognostici più complessi che integrano dati clinici, genetici e di immagini. Parallelamente, si è aperta la discussione sull’impiego più esteso di terapie abbassanti il colesterolo — inclusi i farmaci innovativi come gli inibitori di PCSK9 — anche in soggetti che non hanno ancora avuto un evento coronarico ma presentano profili di rischio elevato.
Non è una scelta priva di costi o conseguenze: trattare in modo più aggressivo popolazioni più ampie significa investimenti importanti, infrastrutture diagnostiche e un’organizzazione sanitaria pronta a gestire l’allargamento dello spettro preventivo.
Ma, ragionano gli esperti, va messo in conto il confronto tra spesa preventiva e il costo — umano ed economico — di un infarto: giorni di ricovero intensivo, interventi chirurgici, riabilitazione, danni permanenti e perdita di produttività. La prevenzione, quindi, non è solo etica ma anche efficiente.

🔎 Dietro i numeri ci sono anche problemi di accesso alla cura e di aderenza alle terapie. Molti pazienti con ipercolesterolemia o con ipertensione non raggiungono gli obiettivi terapeutici raccomandati. In Italia, come in altri Paesi, si osservano lacune nel follow-up, scarsa profilassi farmacologica e sovente disinformazione su rischi e benefici dei trattamenti. A ciò si aggiungono fenomeni più nuovi, come i consigli medici improvvisati diffusi sui social: pericolosi suggerimenti che possono allontanare dal percorso di cura corretto.
Un altro fronte cruciale è la diagnosi precoce: spostare il baricentro dalla cura del malato acuto alla ricerca attiva dei soggetti «ad alto rischio» prima che abbiano un primo evento. Alcuni centri stanno sperimentando programmi di screening per categorie specifiche (ad esempio, soggetti con diabete di lunga data, familiari di persone con malattia aterosclerotica precoce, persone con marcata storia di ipercolesterolemia ereditaria). Questi programmi prevedono protocolli integrati: valutazione clinica, esami ematochimici, imaging e piani terapeutici personalizzati.
La tecnologia è un’alleata: intelligenza artificiale e big data consentono di identificare pattern nascosti nel profilo di rischio individuale, mentre la telemedicina facilita il monitoraggio continuo di parametri come la pressione e l’aderenza ai farmaci. Ma l’adozione di queste soluzioni richiede investimenti e una normativa chiara su privacy e responsabilità clinica.

Sul piano terapeutico, le novità non mancano. Oltre alla maggiore diffusione delle statine e dei nuovi farmaci anti-PCSK9, la ricerca esplora approcci che vanno dalla terapia antinfiammatoria specifica alla stabilizzazione farmacologica delle placche, fino a interventi di prevenzione personalizzati. Studi internazionali recenti hanno mostrato che riduzioni significative di LDL-colesterolo, raggiunte anche con combinazioni terapeutiche, si associano a una diminuzione degli eventi maggiori — e per alcuni ricercatori questo suggerisce di anticipare la terapia nei soggetti ad alto rischio ancora asintomatici.
La dimensione sociale della prevenzione è altrettanto importante. Gli esperti sottolineano la necessità di educazione sanitaria capillare: campagne di informazione sul rischio cardiovascolare, promozione di stili di vita salutari nelle scuole e nei luoghi di lavoro, incentivi per programmi di attività fisica e nutrizione. Allo stesso tempo, va rafforzato il ruolo del medico di medicina generale come punto di filtro e collegamento con i servizi specialistici: una rete che sappia intercettare segnali e avviare percorsi preventivi.
C’è poi la questione delle diseguaglianze territoriali. Alcune regioni mostrano tassi di mortalità e morbilità cardiovascolare più elevati, spesso legati a fattori socioeconomici, differenze nell’organizzazione territoriale e disponibilità di strutture specialistiche. Ridurre queste disuguaglianze è parte integrante della strategia per abbassare il numero complessivo di infarti.

La sfida, in sintesi, è duplice: trattare meglio chi ha già avuto un evento e, soprattutto, impedire che l’infarto si manifesti come primo e drammatico segnale. Questo richiede una visione di sanità pubblica che integri diagnosi precoce, terapie più efficaci e una cultura della prevenzione.
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