3:12 pm, 12 Novembre 25 calendario

COP30, a Belém si scrive il futuro del pianeta

Di: Redazione Metrotoday
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Al via la conferenza sul clima: tra assenze pesanti, richieste dei popoli indigeni e l’allarme ONU sui 250 milioni di sfollati climatico

Belém — Dentro e attorno al grande padiglione che ospita la COP30, nella città amazzonica di Belém, si consuma in quarantaquattro stanze una partita che si gioca su numeri, promesse e simboli. La cornice — la foresta pluviale, i fiumi che si snodano come vene vitali — rende il palcoscenico spettacolare; ma a trasformare l’appuntamento in qualcosa di più impegnativo è la posta in gioco: tenere insieme le promesse del passato, tradurle in miliardi, definire responsabilità e misure concrete per milioni di persone già costrette a spostarsi dal clima.

La conferenza, aperta ufficialmente nei primi giorni di novembre, è stata preparata come un banco di prova politico per la decarbonizzazione globale, ma la fotografia dell’avvio è ambivalente: delegati e ministri da ogni parte del mondo, associazioni e scienziati, ma anche vuoti molto rumorosi nello schieramento dei potenti. L’assenza di alcuni tra i maggiori emettitori globali e la scelta di altri leader di non presenziare alla plenaria dei capi di Stato hanno alimentato il sospetto che la posta politica resti alta tanto quanto la soglia della temperatura che si cerca di contenere.

Un’agenda che parla di soldi, adattamento e diritti

Sull’agenda della COP30 ci sono questioni ormai note — mitigazione, adattamento, trasparenza delle emissioni — ma la novità è il livello di urgenza con cui vengono misurate. Al centro delle discussioni c’è la richiesta di aumentare e rendere più prevedibile il flusso di fondi verso i paesi in via di sviluppo: infrastrutture resilienti, protezione delle comunità costiere, riforestazione, e soprattutto un sistema di risarcimento per le perdite e i danni legati al clima. Se alla COP di Parigi le promesse si misuravano in impegni di riduzione e in intenti nazionali (NDC), qui si parla di cifre effettive — e di come far sì che arrivino.

Nelle stanze operative si discute di obiettivi finanziari concreti per la prossima decade: scelte su come mobilitare capitale pubblico e privato, strumenti di garanzia, meccanismi per la riduzione del rischio. Il confronto è serrato sul “chi paga” e su come evitare che i costi ricadano sulle spalle dei paesi meno responsabili ma più vulnerabili.

Alla COP30 si sente forte l’eco di alcune assenze istituzionali. I grandi poli economici, per vari motivi — bilanci politici nazionali, agende interne, calcoli diplomatici — non hanno mandato in alcuni casi i capi di Stato o hanno ridotto la presenza al livello ministeriale. Questo voto di fiducia a metà mette sotto pressione la macchina negoziale: quando mancano i vertici delle potenze che hanno maggiori marcatore di emissioni, il percorso verso decisioni vincolanti si complica.

L’assenza non è soltanto simbolica. Nei negoziati internazionali, la capacità di imprimere svolte concrete spesso passa proprio dal coinvolgimento diretto dei leader. Senza di loro, il rischio è che le trattative ristagnino lungo compromessi deboli o che le proposte più ambiziose vengano rimandate. Per i paesi vulnerabili, questa dinamica è un ammonimento: mentre le temperature aumentano e le calamità si moltiplicano, la politica internazionale rischia di non corrispondere ai tempi dell’emergenza.

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L’allarme dell’Onu

Sul tavolo di Belém è arrivato un monito pesante: secondo le stime recenti dell’ONU e delle agenzie umanitarie, gli eventi meteorologici estremi e i cambiamenti climatici hanno già costretto centinaia di milioni di persone a spostarsi nel corso dell’ultimo decennio. Questa massa di esseri umani in movimento non è un dato astratto: rappresenta comunità spezzate, città e villaggi dove il lavoro e i mezzi di sussistenza sono ormai precari, e interi sistemi territoriali che devono ripensare infrastrutture, salute pubblica e disponibilità idrica.

L’emergenza dello sfollamento climatico trascende le tradizionali categorie del diritto internazionale: chi è sfollato per un’alluvione o una desertificazione progressiva non rientra sempre nelle protezioni offerte ai rifugiati. Per questo motivo, oltre ai pacchetti finanziari per l’adattamento, all’interno della COP si è alzata la richiesta di strumenti giuridici e finanziari che riconoscano e assistano adeguatamente le persone costrette a migrare dal clima. La discussione si intreccia con la più ampia cornice dei diritti umani, con implicazioni che vanno dalla pianificazione urbana all’accesso ai servizi fondamentali.

I popoli indigeni: voce del territorio e richiesta di giustizia climatica

In una COP che si tiene nel cuore della regione amazzonica, la presenza delle popolazioni indigene non è solo simbolica: è centrale. Delegazioni provenienti dall’Amazzonia, dagli Andes e da altre foreste del Sudamerica sono arrivate per presentare rivendicazioni precise: riconoscimento del loro diritto sui territori, demarcazione delle terre, misure efficaci contro deforestazione e per evitare estrazioni minerarie e petrolifere che devastano ecosistemi e spezzano comunità.

La narrazione dei popoli indigeni — che porta con sé conoscenze tradizionali e pratiche di gestione del territorio — si scontra con interessi economici consolidati. In molti casi, i tifosi della conservazione vedono nelle comunità locali non soltanto vittime ma attori strategici per la protezione del patrimonio biologico. Chiedono dunque non solo che la COP approvi impegni tattici, ma che il processo decisionale includa meccanismi di partecipazione, consultazione e accesso equo ai fondi per la tutela ambientale.

Tra i dossier più spinosi compare quello del cosiddetto “loss and damage” — le richieste di risarcimento per danni già subiti a causa del clima. Negli anni passati questo tema è diventato una linea di faglia tra Nord e Sud del mondo: i paesi più vulnerabili reclamano fondi e strumenti che vadano oltre l’adattamento, mentre i paesi donatori chiedono garanzie, controlli e che gli strumenti non si trasformino in trasferimenti illimitati. A Belém, il negoziato su questo tema è uno snodo: trovare formule finanziarie, fondi specifici, o strumenti di assicurazione multilaterale richiede convergenze politiche che non sono scontate.

A complicare il quadro c’è la sfida di mobilitare denaro privato senza perdere trasparenza e responsabilità: accelerare investimenti verdi significa creare regole chiare, evitare “greenwashing” e stabilire criteri che distinguano progetti davvero emission-saving da operazioni di facciata. La platea internazionale chiede quindi meccanismi di valutazione e reporting più solidi, oltre a piani nazionali di riduzione coerenti e verificabili.

Le piazze e le strade: protesta e pressione dall’esterno

Fuori dal centro congressi, le strade di Belém respirano un clima di mobilitazione. Attivisti climatici, giovani e comunità locali organizzano presidi e manifestazioni per tenere alta l’attenzione sui nodi che le trattative rischiano di eludere. La protesta è il termometro dell’irritazione pubblica: fonti di sfollamento, megaprogetti estrattivi e mancati investimenti in resilienza sono al centro degli slogan. È un promemoria per i negoziatori: il consenso politico internazionale non è automatico se non risponde ai bisogni reali.

Tre scenari principali si delineano all’orizzonte della COP30. Il primo è lo scenario della convivenza minima: accordi tecnici e pacchetti di finanziamento limitati che mantengono aperte le contraddizioni fondamentali. Il secondo è quello del progresso negoziale: trovando accordi su meccanismi finanziari e norme per il “loss and damage”, la COP potrebbe segnare una svolta gestionale. Il terzo — meno probabile ma non impossibile — è lo scenario di rottura: fallimento delle trattative e ritorno a dinamiche frammentate che lasciano i paesi vulnerabili scoperti.

Nessuno di questi scenari è predeterminato. La posta dipende da compromessi difficili, dalla pressione delle piazze, dalla capacità delle società civili di trasformare le richieste in agenda politica e, non meno importante, dalla volontà politica dei grandi emettitori.

La posta non è più solo tecnica, è esistenziale

A Belém si discute il prezzo del futuro. Non è un dibattito astratto: è la somma di scelte che decideranno dove e come vivremo. La COP30 è una delle ultime fermate in cui è possibile tradurre la scienza in strumenti operativi. Se il negoziato non rovescerà le inerzie economiche e politiche che hanno generato le crisi climatiche, le conseguenze saranno pagate prima e peggio dalle popolazioni più esposte.

La città amazzonica, con la sua foresta e i suoi fiumi, non è solo un set scenografico: è la testimonianza vivente di ciò che la conferenza cerca di proteggere. Le assenze pesano, i numeri dell’esodo climatico scuotono, e le voci indigene ricordano che la difesa del territorio non è una scelta ideologica ma una strategia di sopravvivenza.

 

12 Novembre 2025 ( modificato il 14 Novembre 2025 | 15:21 )
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