Separazione delle carriere: il Senato dà il via libera definitivo.
 
            Che cosa cambia davvero e perché il Paese è diviso
Il Senato ha approvato in via definitiva la riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere nella magistratura: un passaggio che la maggioranza politicamente definisce storico e che le opposizioni bollano come parziale o addirittura dannoso. Il voto finale di Palazzo Madama — 112 favorevoli, 59 contrari e 9 astenuti — chiude la fase parlamentare prevista dalla Costituzione e apre la strada al possibile referendum confermativo, qualora non si raggiunga la soglia dei due terzi delle camere.
Questo compromesso legislativo nasce da una lunga stagione di dibattito: il testo definitivo sancisce la separazione fra magistratura “requirente” (i pubblici ministeri) e magistratura “giudicante” (i giudici), prevede la nascita di organismi distinti di autogoverno e istituisce nuove regole per la disciplina interna e per le nomine di vertice. Al contempo introduce meccanismi di rappresentanza pensati per limitare l’incidenza delle correnti tradizionali — come il sorteggio per alcuni membri dei nuovi organismi — e istituisce una nuova “Alta Corte disciplinare” deputata a giudicare i magistrati.

Cosa prevede la riforma, punto per punto
Nel linguaggio costituzionale e ordinamentale, la riforma contiene alcuni elementi strutturali che cambieranno l’architettura della magistratura italiana:
Separazione formale delle carriere: viene esplicitato in Costituzione quello che fino ad oggi era sostanzialmente una distinzione di funzioni. La riforma vuole rendere più netto il confine tra chi accusa e chi giudica.
Due Consigli superiori della magistratura: un CSM per i magistrati giudicanti e un CSM per i magistrati requirenti. La composizione e le modalità di nomina differiranno dall’attuale assetto per cercare di limitare l’influenza delle correnti.
Sorteggio per alcuni componenti: per ridurre gli effetti delle logiche di schieramento e di corrente, alcuni componenti dei nuovi organi saranno scelti con meccanismi casuali tra liste ammesse, con limiti temporali e di ri-entrata.
Alta Corte disciplinare: un nuovo organismo incaricato di gestire i procedimenti disciplinari di vertice, con procedure e sanzioni ridefinite.
Deroghe e clausole: il testo contempla almeno una deroga significativa: in casi di «meriti insigni» il CSM della carriera giudicante potrà nominare, in casi eccezionali, consiglieri di Cassazione provenienti dalla carriera requirente (con requisiti di anzianità).
Dal punto di vista costituzionale la riforma si colloca dunque come modifica dell’ordinamento giudiziario e del sistema di autogoverno delle toghe, con impatti pratici sulle nomine, sulla disciplina e (almeno in teoria) sull’indipendenza del giudice.

Perché ora il voto finale apre il rischio di referendum
Il calendario che ha portato al voto finale è stato affollato e politicamente teso: dopo le prime letture e i passaggi parlamentari, la maggioranza non è riuscita a raggiungere la soglia dei due terzi dell’aula, condizione che rende obbligatorio il ricorso al referendum confermativo se richiesto nei termini dalla minoranza o dalla società civile. Il governo ha comunque fatto sapere di confidare in una consultazione popolare — il ministro della Giustizia e altri esponenti della maggioranza hanno indicato come possibile finestra primaverile 2026.
Il referendum rappresenterebbe un passaggio politico decisivo: non soltanto sulle ragioni giuridiche della separazione, ma soprattutto sulla percezione pubblica della giustizia italiana. In campo si misureranno argomentazioni tecniche (efficacia del nuovo assetto, tutela dell’indipendenza) e narrative politiche (lotta alla politicizzazione delle toghe, garanzia dei diritti).
Terzietà del giudice e fiducia dei cittadini
I sostenitori della riforma sottolineano alcuni punti chiave:
Una separazione netta tra chi indaga e chi giudica è ritenuta da molti un presidio di imparzialità: se PM e giudici non condividono più lo stesso percorso di carriera, si attenuerebbero i rischi di commistione di ruoli e di reti interne che condizionano nomine e promozioni.
La riduzione dell’influenza delle correnti tramite sorteggio e meccanismi di rappresentanza sarebbe una misura anti-clientelare, pensata per ricreare fiducia verso le istituzioni giudiziarie.
La nuova Alta Corte disciplinare dovrebbe garantire procedure uniformi e trasparenti nelle questioni di ordine disciplinare, evitando percezioni di doppi standard.
Politicamente, il messaggio della maggioranza è chiaro: la riforma è uno strumento per rendere la giustizia più credibile agli occhi dei cittadini.

Le critiche: frammentazione, efficacia e rischi reali
Dall’altro lato, giuristi, magistrati e molte forze d’opposizione avvertono che la riforma rischia di produrre effetti contrari a quelli annunciati:
Separazione déjà vu: secondo critici autorevoli, la separazione delle funzioni esiste già nella pratica; la novità costituzionale rischia più di formalizzare che di rendere effettiva la terzietà. In altri termini, il problema non sarebbe strutturale ma culturale e organizzativo.
Rischio di indebolimento della responsabilità: frammentare l’autogoverno in due organismi potrebbe ostacolare coordinamento e responsabilità istituzionale — con il rischio di diluire accountability e di aumentare conflittualità tra organi.
Sorteggio e legittimità democratica: il ricorso a componenti sorteggiati provoca perplessità sul piano della rappresentanza; la scelta, seppure pensata per ridurre i conflitti di corrente, potrebbe sollevare dubbi sulla preparazione e sulla legittimità di chi viene chiamato a compiti decisionali delicati.
Distrazione dai veri problemi: più politicamente, alcuni commentatori sostengono che la riforma non affronti i nodi concreti che affliggono la giustizia italiana — durata dei processi, arretrato, organizzazione dei tribunali e risorse — e rischi di essere una risposta simbolica a problemi strutturali.
Queste critiche trovano eco non solo tra i commentatori ma anche in parte della magistratura: molti giudici e PM temono che la riforma, lungi dall’alleggerire pressioni e interferenze, crei nuove turbolenze istituzionali.
Il contesto storico e le riforme precedenti
Per comprendere il significato della scelta odierna è utile guardare alla traiettoria delle riforme degli ultimi vent’anni. La riforma Cartabia (2021) aveva già introdotto novità significative nel processo penale e nella disciplina dei magistrati, cercando di accelerare i tempi processuali e di rivedere alcuni meccanismi disciplinari. La separazione delle carriere è stata più volte al centro del dibattito politico: proposte, emendamenti e tentativi di riforma si sono succeduti in diverse legislature, sempre accompagnati da forti tensioni tra politica e magistratura.
L’odierna approvazione definitiva rappresenta quindi il culmine di un percorso lungo, segnato da fisiologica dialettica tra potere politico e mondo delle toghe: un rapporto che in Italia ha conosciuto momenti di forte scontro (dagli anni di Mani Pulite ai recenti scandali giudiziari), e che oggi si ritrova a ricostruire regole del gioco.

Quali saranno gli effetti pratici nei tribunali
Le prime conseguenze operative toccheranno le procedure di nomina dei vertici, gli organi disciplinari e la gestione delle carriere. Nei tribunali e nelle procure potrebbero sorgere incertezze organizzative nel breve periodo: dovranno essere ridefinite prassi, regolamenti interni e, potenzialmente, linee organizzative per evitare vuoti di responsabilità. Inoltre, la riforma porrà l’accento sulla necessità di nuove norme di raccordo e di interpretazioni giurisprudenziali per gestire casi-limite.
Sul piano simbolico, tuttavia, l’effetto sarà politico e mediatico: il governo potrà rivendicare un intervento che — secondo la maggioranza — tutela la terzietà, mentre le opposizioni vedranno nel referendum un banco di prova per misurare la sensibilità dell’opinione pubblica.
Oltre alle dispute tecniche, la riforma tocca un tema che da sempre interessa i cittadini: la fiducia nella giustizia. Se la riforma contribuirà a rendere più trasparente e indipendente il sistema giudiziario, potrà avere effetti positivi sul senso di giustizia percepita. Se invece diventerà motivo di conflitti istituzionali, rischierà di aggravare l’immagine di un sistema incapace di risolvere i suoi problemi reali.

Tra legge e politica, il referendum come spartiacque
L’approvazione definitiva del Senato segna una svolta istituzionale, ma non chiude il dibattito: il percorso costituzionale continuerà con l’eventuale referendum, che probabilmente si terrà nella primavera del 2026. Quel voto sarà meno sulla tecnica normativa e più su una scelta collettiva: decidere se affidare alla riforma la speranza di una giustizia più credibile, o se respingerla come soluzione incompleta ai veri nodi del sistema.
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