Obiettivo criminalità: caos, morte e devastazioni a Rio
Un’operazione su vasta scala nella zona nord‑est di Rio de Janeiro ha segnato uno dei giorni più sanguinosi nella storia recente dello Stato di Rio. Oltre 2.500 agenti — tra polizia civile, militare e forze speciali — sono entrati nei quartieri delle favelas di Alemão e Penha, zone fortemente controllate da Comando Vermelho, la potente organizzazione criminale che da anni detiene gran parte del traffico e del controllo territoriale nella città. Le autorità parlano di almeno 64 persone uccise, tra cui quattro agenti, decine di feriti, più di 80 arresti e l’impegno in massa di mezzi blindati, elicotteri, droni.
La dinamica è stata descritta come una vera e propria “zona di guerra”: traffici di droga, barricate con bus incendiati, lanci di ordigni da droni, scontri a fuoco prolungati che hanno paralizzato la viabilità, scuole e attività commerciali chiuse, residenti barricati in casa temendo rappresaglie.
Il governatore dello Stato, Cláudio Castro, ha definito l’operazione di “contenimento” come un colpo decisivo allo stato criminale: «Non è più criminalità ordinaria, è narco‑terrorismo». Ma questa versione è stata contestata da attivisti per i diritti umani, che parlano di «macelleria», «massacro della favela», e di una risposta che rischia di ripetere modelli di militarizzazione delle periferie senza incidere sulle cause strutturali della violenza (povertà, esclusione, mancanza di opportunità).
Nel corso della giornata, mentre le autorità ribadivano il proprio controllo, alcuni residenti denunciavano di aver visto corpi a terra nei vicoli, rimozioni tardive, identificazioni non ancora rese pubbliche. È emerso anche che fra i morti ci siano civili, non solo presunti gang, un dato che ha alimentato lo scontro politico e mediatico.

La militarizzazione continua
Questo blitz va inserito in un contesto più ampio di strategie di ordine pubblico e repressione: nel maggio 2022 un’operazione nella favela di Vila Cruzeiro (Penha) aveva provocato almeno 23‑26 morti, ancora dolore e polemiche sul ruolo della polizia. Nel 2021, l’operazione del quartiere Jacarezinho aveva registrato 28 morti, diventando uno dei casi più discussi per la severità dell’intervento. Anche nel marzo 2025 una caccia a un vero “resort” del traffico – piscina, palestra, barbecue – nel complesso delle favelas di Israel (Rio) ha evidenziato quanto radicati siano i gang nella struttura urbana e sociale.
In tutti questi casi emerge un problema ricorrente: l’approccio appare essenzialmente militare, reattivo, orientato alla “zona di traffico” più che alla sostanza del tessuto sociale. E le favelas pagano un conto altissimo, spesso senza che si proceda a riforme strutturali di prevenzione, sviluppo urbano, educazione.
In questa ultima operazione, il fatto che le autorità stesse parlino di “territorio = reddito per i criminali” evidenzia la logica: sgombero del controllo della strada, interdizione del flusso, ma non necessariamente ricostruzione successiva. Per molti residenti, però, la favela resta una trappola: bombardata dalla polizia oggi, ricostruita dal traffico domani.

Dietro i numeri e l’apparato bellico, ci sono vite, famiglie, bambini che vivono in quelle stesse strade dove si scatenano le operazioni. Molti di questi quartieri sono densamente popolati, con case ammassate, infrastrutture carenti, accesso limitato a servizi e opportunità. Una sparatoria all’alba significa scuole chiuse, genitori che non sanno se trovare i figli a casa, la corrente che salta, il bus che non passa.
Una leader comunitaria ha dichiarato che «una volta ancora la favela sta sanguinando e noi contiamo i corpi». E i corpi citati non sono solo quelli dei “trafficanti”: tra le vittime ci sarebbero civili, testimoni e residenti non coinvolti nel commercio illegale. Il contrasto alla droga sembra aver assunto i contorni della guerra urbana, dove la linea fra combattenti e civili diventa sfumata.
La violenza dei numeri (oltre 170 morti) porta inevitabilmente anche conseguenze politiche. Il governatore ha promesso presenza costante e controllo totale, ma il livello di degenerazione dell’azione – e soprattutto l’alto numero di vittime – richiama l’attenzione internazionale sui diritti umani. Organizzazioni come Human Rights Watch chiedono indagini puntuali su possibili esecuzioni extragiudiziali, uso eccessivo della forza, responsabilità dello Stato nei confronti dei civili.
Dal punto di vista sociale, il messaggio è ambivalente: da un lato, lo Stato afferma che non tollera più il dominio del crimine; dall’altro, la modalità utilizzata rafforza l’idea del quartiere come zona di guerra, la città come frontiera. Per molti giovani della favela, un altro problema è che queste operazioni – pur essendo spettacolari – non creano opportunità lavorative, non migliorano gli scuole, non mettono riparo alle condizioni di vita.
Sul piano mediatico, le immagini diffuse (corpi in strada, veicoli blindati, fiamme) contribuiscono a rafforzare stereotipi: la favela come teatro dell’orrore, della “violenza selvaggia”. Ma questa rappresentazione rischia di oscurare le sfumature: sono anche comunità, abitanti, cittadini che vogliono solo vivere senza essere presi tra bande armate e polizia militarizzata.

Il traffico di droga a Rio – e in Brasile in generale – non è una realtà marginale: è oggi un business radicato, che controlla porzioni di città, che eroga “servizi” alternativi allo Stato (sicurezza, acqua, elettricità, internet). Come ha spiegato il segretario alla sicurezza pubblico dello stato di Rio: «Il territorio significa reddito per i criminali». Le operazioni statali cercano di interrompere questo ciclo. Ma quanto sopra la superficie resta la fragilità della presenza statale nei quartieri: infrastrutture carenti, alternative limitate, opportunità quasi nulla per chi non vuole (o non può) entrare nel traffico.
Il riferimento alle operazioni precedenti lo conferma: le azioni più visibili sono le “grandi incursioni”, ma la prevenzione, lo sviluppo sociale, l’azione quotidiana sono ancora in parte assenti. Le favelas tornano ad essere “zone di intervento” solo quando il conflitto esplode.
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