Un colpo al cuore dell’industria cinematografica, j’accuse di De Laurentiis contro i tagli
La frase — dura, netta, di quelle che non lasciano spazio alle sfumature — è rimbalzata nelle redazioni e sui social: «Di cinema al Mic non capisce niente nessuno». A pronunciarla è stato Aurelio De Laurentiis, produttore e imprenditore che da decenni occupa un ruolo centrale nel sistema cinematografico italiano. Dietro l’affermazione c’è molto più di uno sdegno personale: c’è la rabbia di chi vede evaporare, con la legge di bilancio, risorse ritenute strategiche per la tenuta di un intero settore, dalla produzione alle maestranze, dai festival alle sale.

Il contesto è noto: nell’ultima fase di approvazione della manovra i numeri destinati al Fondo per il cinema e l’audiovisivo e alle misure correlate sono stati rivisti al ribasso. La questione non è soltanto aritmetica: si tratta di scelte che toccano il funzionamento del tax credit, la capacità di finanziare progetti indipendenti, la sostenibilità delle case di produzione e il futuro delle politiche culturali pubbliche. Per tanti protagonisti della filiera, i tagli non sono un semplice aggiustamento di bilancio ma un’operazione dal sapore politico, con implicazioni concrete per il lavoro e per la tenuta del patrimonio cinematografico nazionale.
De Laurentiis, figura spesso a suo agio nel ruolo del polemista — che si tratti di calcio o di cinema — ha usato la sua posizione per alzare la voce. La critica punta non solo al dato numerico, ma alla presunta incapacità di chi governa il dicastero di comprendere le dinamiche reali della produzione: quei tempi, costi e percorsi che trasformano un progetto in un film e il film in un ecosistema di professionalità. Alla base dell’accusa c’è la sensazione che decisioni prese su tavoli politici lontani dalle officine del cinema possano provocare danni difficili da rimediare.

Dietro al commento c’è anche una storia recente fatta di tensioni e confronti: negli ultimi anni il rapporto tra ministero, associazioni di categoria e produttori è stato caratterizzato da continue negoziazioni su regole del tax credit, criteri di accesso ai contributi e priorità di finanziamento. Le industrie culturali sono state sollecitate a rinnovarsi sotto la spinta delle piattaforme internazionali, mentre il sistema italiano ha visto proliferare progetti, ma anche un disequilibrio tra offerta e capacità di mercato. Alcuni attori della filiera mettono in guardia contro una produzione eccessiva, destinata a non trovare spazio nelle sale o nelle piattaforme, altri invece sottolineano come senza investimenti pubblici molte idee non vedrebbero mai la luce.
Le organizzazioni di categoria hanno reagito compatte. Dalle voci delle associazioni sono arrivati appelli affinché il governo riveda le cifre e ripristini una dotazione che possa garantire continuità e progettualità. Si parla di ricadute sul lavoro: non solo registi e interpreti, ma un lungo esercito di professionisti tecnici — elettricisti, macchinisti, costumisti, truccatori, scenografi — il cui reddito viene prodotto proprio da una filiera che funziona. Un taglio, anche in parte, rischia quindi di avere un effetto moltiplicatore negativo sull’occupazione culturale e sul tessuto produttivo locale.
A chi osserva con distacco può sembrare una disputa tra élite culturali, ma le cifre raccontano una realtà più complessa. Negli ultimi anni il quadro delle risorse pubbliche è stato oggetto di ripetuti aggiustamenti: aperture e chiusure di bandi, criteri che cambiano, incentivi che vengono riallocati. Questo clima d’incertezza non favorisce la pianificazione a medio termine, indispensabile per la preparazione di opere cinematografiche e per lo sviluppo di progetti televisivi e d’autore. Per molte imprese, pianificare oggi un film significa guardare a un orizzonte di un anno o più; sapere quali strumenti saranno disponibili è quindi cruciale.

Non mancano, all’interno del mondo culturale, riflessioni critiche sulle responsabilità interne. Alcuni osservatori sottolineano che il sistema italiano, in passato, ha sovvenzionato quantità elevate di produzione senza aver definito strumenti efficaci di distribuzione e promozione. La conseguenza è stata, secondo questi critici, una dispersione di risorse e l’uscita sul mercato di titoli che non sempre trovano pubblico. Altri ribattono che il radicamento culturale del cinema italiano e il ruolo strategico dell’audiovisivo richiedono investimenti pubblici stabili: la cultura, in molti Paesi europei, è promossa come bene comune e leva di soft power.
Fra i produttori si dibatte anche sul ruolo crescente delle piattaforme globali: se da una parte esse hanno introdotto capitali e opportunità, dall’altra hanno ridefinito le logiche di mercato. Le grandi piattaforme spesso trattengono il controllo distributivo, lasciando alle produzioni nazionali margini e contratti che non sempre favoriscono la sostenibilità delle imprese locali. Il ridimensionamento delle risorse pubbliche rischia di accelerare una disintermediazione che penalizza i produttori indipendenti e favorisce i modelli che già dispongono di mezzi e visibilità.
Accanto all’urgenza economica, emergono anche questioni culturali: il cinema come strumento di racconto della società, memoria, identità. La riduzione dei fondi rischia di indebolire la possibilità di sostenere progetti di nicchia, documentari e opere di ricerca che raramente generano grandi incassi ma che arricchiscono il discorso pubblico. In un paese dove il patrimonio cinematografico è parte significativa dell’identità culturale, la cura di questo patrimonio non è solamente un fatto economico ma una scelta politica.

La risposta delle istituzioni, al momento, è stata mista: segnali di apertura doverosa, dichiarazioni che promettono verifica degli impatti e aperture al dialogo, ma anche la necessità di concludere la manovra rispettando vincoli di finanza pubblica. È qui che si gioca la partita: trovare un equilibrio che permetta di chiudere i conti senza amputare la capacità produttiva di un settore che, al netto delle criticità, ha dimostrato negli anni di essere una risorsa strategica per l’Italia.
La battaglia che ora divampa tra produttori, associazioni, artisti e istituzioni ha un valore simbolico e pratico. Simbolico perché tocca il senso stesso di cosa significhi per un Paese investire nella creatività; pratico perché da essa dipende il lavoro di migliaia di persone. Le parole di De Laurentiis fungono da detonatore: hanno richiamato l’attenzione pubblica e spinto interlocutori che, fino a poco prima, sembravano silenziosi, ad alzare la voce.
Se la politica intende davvero difendere la cultura come bene comune, dovrà misurarsi con la concretezza delle esigenze del settore. Non basteranno proclami: servono numeri, regole stabili e una visione di lungo periodo. Altrimenti, al di là delle parole forti che oggi scuotono il dibattito, il rischio è che domani saremo qui a contare i danni.
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