Hamas e i video choc delle esecuzioni: accordo di pace a rischio ?

In pieno tentativo di tregua tra Israele e Hamas, sono emersi video agghiaccianti che mostrano esecuzioni pubbliche a Gaza, attribuite al movimento islamista. L’episodio — come una scheggia in una tregua fragile — mette in luce uno dei dilemmi più gravi: può reggere un cessate il fuoco mentre una delle parti continua a esercitare con brutalità un potere interno? Le immagini hanno già provocato condanne diplomatiche, timori per il futuro della pace e interrogativi sul controllo reale di Hamas nel territorio.
Questo articolo cerca di ricostruire la dinamica, contestualizzare l’episodio nel conflitto più ampio, esaminare le reazioni internazionali e considerare gli scenari possibili: è davvero in pericolo l’accordo di pace?
Le esecuzioni: cosa mostrano i video
Nelle ultime ore sono emersi video che documentano esecuzioni pubbliche nel centro di Gaza. Le scene sono crude: uomini bendati, con le mani legate, in ginocchio per strada; alcuni testimoni udono colpi di arma da fuoco ravvicinati; ci sarebbero urla, invocazioni religiose e grida della folla. Il tutto è avvenuto poche ore dopo la firma — o l’annuncio — di un accordo di pace tra Israele e Hamas.
I filmati — condivisi su canali social, Telegram e piattaforme locali — mostrano almeno otto uomini accusati dal movimento di essere «collaboratori con Israele» o «fuorilegge». In alcuni casi, i media hanno identificato una delle vittime come Ahmad Zidan al‑Tarabin, presentato come reclutatore di agenti affiliati a milizie rivali non controllate da Hamas.
Hamas ha riconosciuto che le riprese sono autentiche e che le esecuzioni sono avvenute, contestualmente alla riconquista del controllo su alcune aree lasciate dalle forze israeliane. L’organizzazione sostiene che si trattava di un “crackdown” contro i clan armati, i collaboratori e gli elementi dissonanti all’interno della Striscia.
Questi atti pubblici hanno una valenza simbolica: non solo un messaggio di intimidazione verso presunti nemici, ma anche un atto di imposizione autoritaria. Eppure la loro comparsa proprio in corrispondenza dell’avvio di una tregua ha fatto emergere il dubbio che Hamas stia tentando di consolidare il potere interno con metodi tipici di un regime in transizione.
Esecuzioni come strategia interna
Quanto avvenuto ora — le esecuzioni pubbliche — si inserisce in una serie di eventi che evidenziano come, all’interno di Gaza, la lotta per il controllo dopo lunghi mesi di guerra non si limiti alla resistenza contro Israele, ma consista anche in una lotta interna tra fazioni, clan e milizie autonome.
Negli ultimi mesi, fonti investigative e giornalistiche hanno documentato casi di intimidazioni contro giornalisti, arresti di oppositori interni, conflitti tra milizie locali e autorità di Hamas. In alcuni ambienti, si parla di «politica del terrore» per assicurare il vincolo del potere su una popolazione devastata e frammentata.
Le esecuzioni diventano allora uno strumento — sebbene brutale — di gestione del dissenso e imposizione della coercizione, in un momento in cui l’autorità centrale può apparire indebolita dall’assedio bellico e dalla pressione internazionale.
La tregua messa in discussione
L’accordo tra Israele e Hamas, mediato soprattutto dagli Stati Uniti e da attori arabi, prevedeva fasi di ritiro delle forze israeliane, consegne di aiuti umanitari e il rilascio di ostaggi. L’idea era di avviare un processo di distensione — non semplice, ma almeno tangibile — dopo mesi di conflitto totale.
Le esecuzioni filmate gettano però un’ombra profonda su quella tregua: se Hamas appare come una delle parti in grado di compiere atti violenti in pubblico, non solo contro Israele ma contro la propria popolazione, quale garanzia può offrire di rispettare gli impegni?
Certo, Hamas sostiene che queste azioni sono interne e dirette ai “traditori” e non agli accordi di tregua con Israele. Ma la distinzione è sottile, soprattutto per chi osserva da fuori: se l’ordine interno non è sotto controllo, i rischi di scontri, escalation o interpretazioni divergenti del cessate il fuoco aumentano esponenzialmente.
Le reazioni globali non si sono fatte attendere. Paesi come la Germania hanno definito le esecuzioni come atti di terrorismo interno, condannando l’uso legale della pena di morte senza processo giusto. Le autorità internazionali, gli organismi per i diritti umani e le Nazioni Unite hanno già lanciato appelli per un’investigazione indipendente e la protezione dei civili.
Nel contempo, i mediatori del processo di pace si sono trovati in una posizione delicate: da una parte la necessità di tenere vivo il dialogo per salvare ciò che dell’accordo esisteva; dall’altra il rischio di perdere credibilità se non esistono misure vincolanti contro atti come le esecuzioni. Alcuni diplomatici denunciano che la tregua rischia di trasformarsi in un “status quo violento”, dove la conformità è imposta con il fucile.
La sfida di disarmare Hamas
Uno dei punti centrali dell’accordo è la dismissione delle armi di Hamas o almeno la loro integrazione in una forza statale sotto supervisione. Ma i fatti recenti suggeriscono che il gruppo — piuttosto che cementare una struttura autoritaria e centralizzata — intenda continuare a esercitare un controllo militare diretto sul territorio. Le esecuzioni non sono solo punizioni, ma segnali: dove c’è conflitto interno, dove ci sono interessi di potere, dove c’è il desiderio di monopolio del potere armato.
Riuscire a smantellare quel monopolio senza far collassare l’autorità centrale o aprire vuoti di forza che clan armati, milizie o potenze esterne possano riempire, sarà una delle sfide più delicate del futuro prossimo.
Tregua fragile, ma persistente
L’accordo resiste, grazie alla pressione internazionale, al desiderio di puntellare la pace e alla vigilanza diplomatico‑militare. Le esecuzioni restano uno spauracchio, ma con monitoraggio esterno (OSCE, Nazioni Unite) si limita il rischio di escalation. Hamas si impegna formalmente a controllare i “clan”, ma in pratica il potere militare rimane nelle sue mani.
Escalation interna e rottura del cessate il fuoco
Le tensioni interne — clan armati che respingono l’autorità centrale, milizie che rimangono armate — provocano scontri con le forze di Hamas. A quel punto, la tregua cessa di essere credibile, le vendette ricadono anche su civili e il passo verso la ripresa delle ostilità verso Israele diventa breve.
Riduzione del ruolo di Hamas e interventi esterni
L’accordo prevede che Hamas perda progressivamente il monopolio della violenza, cedendo poteri a organismi civili internazionalmente supervisionati. In questo modello, atti come le esecuzioni diventano un argomento per rafforzare la pressione politica e internazionale su Hamas, fino a relegarlo a ruolo politico residuale. Ma è un percorso arduo, che richiede volontà e controlli continui.
Si firma, si dichiara, ma sul terreno prevalgono le dinamiche del potere armato. Le esecuzioni continuano, ma sotto soglie diverse, senza cittadinanza legittima. La pace resta una dichiarazione, non una realtà. I civili continuano a vivere tra bombardamenti, controlli arbitrari e paure quotidiane.
Le immagini delle esecuzioni pubbliche — girate e diffuse nelle ore in cui molti speravano che la guerra finisse — non sono solo atti atroci. Sono simboli di potere, di scontro interno, della difficoltà di condurre una pace quando una delle parti esercita la sua autorità con il fucile.
L’accordo di pace potrebbe sopravvivere, ma con l’ombra sempre presente della violenza interna che lo rende un castello di carte. Se Hamas non cede parte del suo monopolio militare, se non rende conto del proprio controllo su Gaza, se non accetta di essere soggetto a vincoli, le esecuzioni non saranno episodi isolati ma tessere di un disegno che mette a rischio la tregua.
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