Hamas consegna altri due corpi, Israele ne conferma l’identità

Trump: “Se non rispetta l’accordo, Tel Aviv può attaccare”
In una nuova fase delicatissima dell’accordo di tregua tra Israele e Hamas, il gruppo palestinese ha restituito nella notte due corpi di ostaggi israeliani alla Croce Rossa, che li ha consegnati all’esercito israeliano per l’identificazione forense. Il governo di Tel Aviv ha confermato che i resti sono compatibili con quelli di due cittadini, e ha posto un ultimatum politico: se Hamas non rispetterà le condizioni dell’intesa, Israele potrà riprendere le operazioni militari “al mio segnale”, ha ammonito l’ex presidente statunitense Donald Trump, artefice del piano negoziale.
L’annuncio ha riacceso tensioni sul confine e rilanciato il nodo centrale del negoziato: la restituzione di tutti i corpi dei 28 ostaggi deceduti e la cessione delle informazioni sui dispersi. Nel frattempo, l’afflusso di nuovi aiuti umanitari nella Striscia rimane condizionato al passo delle consegne.
Il contesto dell’accordo di tregua e la fase “resti morti”
L’intesa – frutto di mediazioni condotte da Stati Uniti, Egitto, Qatar e Turchia – includeva la restituzione di tutti gli ostaggi ancora vivi tuttora in Gaza, l’apertura di corridoi umanitari, il rilascio di prigionieri palestinesi e, parte cruciale e fortemente simbolica, il ritorno dei resti dei 28 ostaggi deceduti. Finora, Hamas aveva affermato di aver consegnato tutti gli ostaggi ancora vivi e “i corpi che è riuscito a raggiungere” nei cumuli di macerie e nei tunnel distrutti. Secondo le forze israeliane, però, mancano ancora almeno 19 corpi.
L’ultimo passaggio segnalato da Hamas: la restituzione nella serata del 15 ottobre di due salme, che vanno ad aggiungersi a quelle rimaste ai margini dei conteggi israeliani. Nel corso dei giorni precedenti, Hamas aveva già consegnato quattro corpi — in totale otto “bare” erano passate alla Croce Rossa. Ma le autorità israeliane hanno segnalato che almeno uno dei corpi consegnati non corrispondeva a un ostaggio, un episodio che ha gettato dubbi sul rigore delle procedure e sull’adempimento delle promesse.
Secondo una fonte collegata al dossier, alcuni corpi sarebbero stati distrutti o irriconoscibili in seguito ai bombardamenti; l’operazione di recupero richiederebbe tecnologie sofisticate e accessi in aree ad alta pericolosità. Hamas ha replicato che farà “tutto il possibile” per recuperare i resti mancanti, ma che le difficoltà sono enormi.
La reazione israeliana e il ruolo di Trump
Benjamin Netanyahu ha dichiarato che Israele non farà compromessi sulla restituzione totale: “Non interromperemo gli sforzi finché non consegneremo l’ultimo ostaggio deceduto, fino all’ultimo”. Il premier ha inoltre precisato che l’apertura del valico di Rafah (tra Gaza e l’Egitto), che permetterebbe un flusso più largo di aiuti umanitari, sarà posticipata fino al soddisfacimento dei punti dell’intesa.
Sul piano esterno, Donald Trump ha messo sul tavolo una leva di pressione diretta: “Se Hamas non rispetta l’accordo, Israele può tornare in campo non appena lo ordino io”. In altre parole, l’ex presidente statunitense ha concesso a Netanyahu una sorta di «autorizzazione indiretta» a riprendere le operazioni militari qualora l’altra parte violi i patti. Allo stesso tempo, Trump ha ribadito che uno dei punti del piano prevede lo smantellamento delle infrastrutture militari di Hamas, un punto che, se non attuato spontaneamente, potrà essere perseguito con azione robusta.
Alcuni diplomatici statunitensi avvertono che questa retorica rischia di minare la credibilità del cessate il fuoco se non accompagnata da azioni misurate e da un controllo rigoroso sulle modalità d’intervento. La Casa Bianca mantiene ufficialmente una posizione di supporto al pace-deal, ma con la precisazione che esso non è un lasciapassare incondizionato per Hamas.
Le difficoltà del recupero
Restituire i corpi degli ostaggi deceduti non è solo una questione politica: è una sfida tecnica. Molti ostaggi sono stati tenuti in tunnel o rifugi sotterranei che sono stati bombardati, distrutti o impraticabili. Le salme che vi si trovavano possono essere state sepolte sotto tonnellate di macerie, danneggiate o disperse.
In diversi casi, i resti potrebbero non essere recuperabili interi, richiedendo analisi forensi di altissimo livello per estrarre tracce biologiche, impronte, DNA, denti o protesi. Inoltre, in un contesto di guerra, le zone da cui provengono i corpi possono essere ancora attive dal punto di vista militare, rendendo pericolosi gli accessi. Hamas ha affermato che servono “attrezzature speciali” e tempo per completare le operazioni di ricerca.
C’è poi il tema dell’autenticità: uno dei corpi restituiti è risultato non corrispondere a un ostaggio israeliano, un episodio che rischia di alimentare accuse di manipolazione propagandistica, errori nelle procedure o persino sotterfugi sul terreno.
Resti di ostaggi come merce di scambio
Il tema della restituzione dei corpi ha radici profonde nei conflitti israeliano-palestinesi. In passato, Israele e Hamas – così come altri gruppi – hanno negoziato scambi che includevano non solo detentivi vivi ma anche salme. Un esempio noto è il caso dei soldati Oron Shaul e Hadar Goldin nel 2014: le trattative per restituire i loro corpi divennero un tema centrale in ogni negoziato e uno dei dossier più sensibili nel bilancio morale dello Stato israeliano.
In quell’occasione, Israele fu accusato da alcuni partiti di sottoporre il governo a pressioni insostenibili, ma ufficialmente il ritorno dei corpi – o almeno la certezza delle salme – divenne una priorità nazionale. In quegli anni, il tema del “soldato caduto ma non restituito” costituiva un elemento simbolico fortissimo per l’opinione pubblica israeliana.
I precedenti insegnano che la restituzione tarda – o mancata – dei resti è percepita come un affronto morale, non solo come una violazione negoziale. Essa tocca credenze religiose, lutto, identità nazionale e il diritto alla sepoltura secondo usanze sacre.
Le famiglie, il dolore e l’aspettativa
Mentre i governi negoziano, le famiglie degli ostaggi vivono un’attesa straziante. Nei casi di ostaggi vivi, lo shock, la speranza e il trauma si mescolano. Ma nel caso delle salme, l’angoscia è più lucida: non c’è salvezza possibile, solo il bisogno che venga restituito ciò che resta della persona amata.
Per molte famiglie, il ritorno della salma è il primo passo verso un lutto degno. Nella tradizione ebraica, la sepoltura ha un’importanza morale e religiosa centrale: è un dovere fondamentale. Finché il corpo non viene restituito, non inizia il processo di elaborazione del dolore.
Quando Israele ha annunciato che un corpo restituito non era quello di un ostaggio, il colpo è duplice: l’illusione di un momento di pace si incrina, e le famiglie si vedono private della certezza del riconoscimento. È un momento pesantissimo, sia emotivamente che simbolicamente, che pesa sulle relazioni interne al Paese.
Il valico di Rafah e l’ingresso degli aiuti
Uno degli aspetti più critici dell’intesa riguarda il rifornimento di Gaza con beni essenziali – cibo, acqua, medicine. Il valico di Rafah con l’Egitto è la porta ideale per massimizzare il flusso umanitario, ma Israele ha minacciato di tenerlo chiuso finché Hamas non adempirà alle consegne dei corpi. Nel frattempo, altri valichi, come quello di Kerem Shalom, continueranno a operare in misura limitata, ma l’accesso resta fragile e condizionato da ogni passaggio del dialogo come condizione.
Il fragile equilibrio del cessate il fuoco
Ogni ritardo nelle consegne rischia di incrinare il cessate il fuoco. Israele ha già annunciato che ridurrà il numero di camion di aiuti qualora le consegne dei corpi venissero considerate tardive o incomplete. Questo tipo di leva crea tensioni quotidiane: ogni giorno, la pace vacilla nel confronto tra promessa e adempimento.
Il rischio di ripresa militare
Con Trump che esplicita un “ diritto implicito” di riaprire il fuoco, la soglia dell’intervento militare è tornata a pendere sul conflitto. Se Hamas dovesse rifiutare o rallentare ulteriormente, l’operazione contro Gaza potrebbe riprendere su vasta scala, cancellando ogni approccio diplomatico. Israele non ha oggi bisogno di attori intermedi: ha già dichiarato che può agire direttamente “al segnale”.
Il ruolo degli intermediari
Egitto, Qatar, Turchia e Stati Uniti hanno fatto da mediatori principali della tregua e del meccanismo di restituzione. Se uno di questi soggetti perde autorevolezza o credibilità sul terreno, il processo può incepparsi. In particolare, il ruolo americano, con Trump come figura di potere, è al centro dell’attenzione: finora è stato garante dell’accordo, ma la pressione sulle parti è palpabile.
Consolidamento della tregua
In questo scenario, Hamas accelera i recuperi, restituisce i resti mancanti e fornisce dati utili sui dispersi. Tel Aviv apre Rafah e amplia il flusso umanitario; il cessate il fuoco resiste, e il negoziato di una “fase due” può partire, con riduzione delle operazioni militari e potenziali passi verso ridestinare Gaza sotto nuovo controllo amministrativo.
Hamas riesce a consegnare solo una parte dei corpi, giustificando che alcuni non sono recuperabili. Israele mantiene salde le sue minacce militari e blocca l’apertura di Rafah. Gli Stati Uniti e altri mediatori cercano di salvare il processo con compromessi, ma l’ombra della guerra incombe.
Rottura dell’accordo e ripresa dei combattimenti
Qualora la mancata restituzione venga considerata una violazione grave, Israele può decidere di intervenire militarmente con bombardamenti intensi o incursioni terrestri. Sarebbe un ritorno al conflitto totale, con conseguenze devastanti per Gaza, aumento di vittime civili, collasso umanitario e probabile condanna internazionale.
La restituzione dei corpi non è solo un punto tecnico. È un test morale, psicologico e politico. Dimostra il confine tra guerra e compassione, tra dignità umana e potere. Israele e Hamas, nel 2025, sono investiti da una lotta che trascende il campo di battaglia: è una guerra di narrazioni, di memoria, di riconoscimento.
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