2:50 pm, 15 Ottobre 25 calendario

Il Governo chiude i conti della manovra proprio nel giorno dei dati sulla povertà

Di: Redazione Metrotoday
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Un incrocio casuale, ma non troppo, che parla da sé

Mentre l’Istat diffonde la fotografia drammatica — quasi sei milioni di persone in povertà assoluta — il governo si riunisce per definire gli ultimi numeri della manovra 2026. È un simbolo potente: chiudere i conti nel giorno della denuncia sociale. Ma dietro le cifre, c’è un’intera strategia politica, economica e morale che va decifrata.

Povertà e bilancio

Il 14 ottobre 2025 è entrato negli annali come un giorno che unisce dati sociali e decisioni di governo: da un lato l’Istat pubblica i numeri della povertà in Italia, dall’altro il governo convoca il primo dei due Consigli dei ministri per la manovra 2026.

Si è discusso il Documento programmatico di bilancio (DPB) e il decreto “economia”; la legge di Bilancio sarà presentata nei giorni successivi. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sintetizza: «Oggi chiudiamo i numeri, poi le norme si perfezioneranno».

Dal punto di vista istituzionale, la coincidenza non è casuale. La comunicazione del governo assume un doppio intento: da un lato dimostrare che le scelte economiche sono compatibili con le “emergenze sociali”, dall’altro spostare il focus politico sulla “responsabilità” del momento: se la povertà è alta, non è colpa dell’assenza del bilancio, ma delle condizioni strutturali del Paese.

Una ferita che non passa

Secondo i dati pubblicati dall’Istat per il 2024:

    2,2 milioni di famiglie (l’8,4% del totale) sono in povertà assoluta

    5,7 milioni di persone (9,7–9,8% della popolazione) vivono in condizioni analoghe

    La quota appare stabile rispetto all’anno precedente, ma è una stasi che pesa come un macigno quando si registrano contestualmente altri indicatori di difficoltà (precarietà, redditi stagnanti)

    Il rischio di povertà o esclusione sociale si attesta al 23,1% della popolazione, con punte vicine al 40% nelle regioni meridionali

    Le famiglie con capofamiglia più giovani, i lavoratori poveri (working poor) e le famiglie straniere risultano le più esposte

Questo ritratto evidenzia che la crisi sociale non decresce: non migliora, non cede terreno. Nemmeno quando le condizioni economiche esterne si ammorbidiscono.

L’osservazione di alcuni analisti aggiunge: la povertà non è solo reddito basso, ma assenza di prospettive, mancanza di accesso ai servizi, limitazioni di opportunità.

La manovra 2026 dovrà coprire circa 18 miliardi di euro per sostenere:

    Riduzioni IRPEF (o modifiche alla struttura fiscale)

    Interventi pensionistici

    La cosiddetta “pace fiscale”

 

Il governo ha indicato che il carico sarà gestito combinando un lieve aumento della pressione fiscale (fino al 42,2%) con tagli selettivi alla spesa pubblica, soprattutto nel welfare e nei settori che non appaiono centrali nella “agenda del merito”. Significativo è il fatto che la spesa sociale figura tra quelle più vulnerabili nei documenti preparatori.

Nello stesso tempo, l’Esecutivo si impegna a un percorso di rientro strutturale: l’avanzo primario, che nel 2025 è previsto allo 0,9% del PIL, crescerà negli anni successivi (1,2% nel 2026; fino al 2,2% nel 2028). In pratica, il piano è quello di ricondurre i conti pubblici al rigore progressivo, compatibilmente con i vincoli europei.

Questo “patto con l’Europa” è centrale nelle giustificazioni ufficiali: la riforma del Patto di Stabilità consente margini superiori di spesa per gli Stati in difficoltà, ma impone il ritorno a criteri di responsabilità.

Si inserisce poi un elemento che è diventato quasi consueto: un contributo delle banche. L’ABI ha annunciato che proseguirà i contributi poliennali già previsti allo Stato, in un’operazione che i critici denunciano come “forzatura contabile” — ossia, ripartire sui bilanci delle banche costi che altrimenti graverebbero solo sulle imposte.

Le manovre “lacrime e sangue” del passato

Negli anni di austerità post‑crisi euro (2011‑2013), il governo Monti impose tagli draconiani e aumenti di imposte per stabilizzare i conti pubblici. Quel periodo segnò una ferita profonda nel rapporto Stato–cittadini: la percezione che il costo della crisi fosse stato scaricato sui più deboli.

In seguito, i governi successivi tentarono di distendere quel rapporto con bonus, incentivi e politiche redistributive (es. assegno unico per i figli, bonus bollette). Ma spesso queste misure compensative si sono mosse su importi limitati, non capaci di invertire trend strutturali.

Le manovre recenti e il “vincolo del merito”

Negli ultimi anni, i governi hanno introdotto criteri che legano maggiorazioni o tagli in base al merito percepito o agli indicatori economici (crescita, investimenti, equilibrio). In pratica, si è spinto a premiare “chi produce” più che “chi soffre”. Questo approccio, tuttavia, rischia di marginalizzare chi è già in difficoltà — persone che non possono “dare di più” perché mancano le condizioni di partenza.

Le politiche sociali che non bastano

Gli interventi di contrasto alla povertà (redditi di cittadinanza, assegni familiari, bonus vari) hanno un effetto mitigatore, ma non riescono a invertire il quadro se agiscono da soli. Il nodo decisivo è il lavoro stabile e dignitoso: per molti, l’unica via d’uscita dalla povertà è un’occupazione remunerativa.

In questo senso, uno studio recente mostra che la stabilità lavorativa è una delle variabili più rilevanti nel determinare le probabilità di uscita dalla povertà, soprattutto nelle province più disagiate.

Ecco perché anche la manovra dovrebbe considerare non solo misure assistenziali, ma politiche strutturali: investimenti nelle aree deboli, incentivi alla stabilità contrattuale, sostegno alle imprese che creano occupazione stabile.

Tra rischio stagnazione e possibilità di inversione di tendenza

Se la manovra chiude i conti “in fretta”, ma non inserisce visione, il rischio è che l’Italia rimanga intrappolata in una stagnazione sociale. I territori deboli continueranno a restare isolati, i giovani senza prospettive, i lavoratori poveri senza via d’uscita.

Al contrario, se il governo riuscisse a inserire misure strutturali — non solo emergenziali — e a farle convivere con il rigore necessario per rassicurare i mercati, si aprirebbe uno spazio politico: una manovra che non è solo “di numeri”, ma che tenta di curare il tessuto sociale.

La partita si gioca su questa tensione: tra la pressione dei conti e l’urgenza dei diritti sociali. In un Paese dove le ingiustizie accumulate hanno radici profonde, chiudere la manovra “nel giorno della povertà” non può essere un gesto simbolico: dev’essere l’inizio di un percorso che metta davvero le persone al centro.

15 Ottobre 2025 ( modificato il 16 Ottobre 2025 | 14:59 )
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