8:14 am, 14 Ottobre 25 calendario

Le microplastiche: il veleno invisibile nelle nostre tavole e lo scontro Berrino-Unionplast

Di: Redazione Metrotoday
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«Le microplastiche? Un veleno quotidiano». Con questa dichiarazione lo studioso e medico epidemiologo Franco Berrino ha riacceso il dibattito pubblico sul tema dell’inquinamento plastico, evocando scenari drammatici e puntando il dito contro la diffusione capillare di particelle plastiche nell’ambiente e nell’organismo umano. Dall’altra parte Unionplast, associazione dei produttori di materie plastiche, replica con cautela: «Evitiamo allarmismi», sostiene il presidente Massimo Centonze, invitando a distinguere fra evidenze e eccessi.

Berrino “all’arma bianca” contro la plastica

La scintilla è stata un intervento sul portale Cook del Corriere, in cui Berrino ha elencato una serie di affermazioni contro l’uso “incontrollato” della plastica, con riferimento alle microplastiche e nanoplastiche.

Dati sulla produzione globale di plastica: dai primi decenni del Novecento a oggi si conterebbero circa 10 miliardi di tonnellate totali, di cui una parte consistente oggi dispersa nell’ambiente.

L’affermazione che le microplastiche contengano sostanze chimiche (oltre 10.000 molecole) fra cui “cancerogeni e interferenti endocrini”.

L’accusa che frammenti di plastica siano presenti in molti organi umani — fegato, polmoni, circolo sanguigno, cervello, placenta — e che alcune ricerche “suggeriscono” una correlazione con malattie degenerative come la demenza.

Le microplastiche nei neonati: presenza nel latte materno, passaggio della placenta, ingestione da parte dei bambini. Avvertimenti circa l’uso di plastica riscaldata (contenitori nelle microonde, prolungamento del calore), l’influenza di taglieri in polietilene, confezionamenti alimentari in plastica.

Unionplast ha difeso il ruolo utile della plastica moderna — nella conservazione alimentare, dispositivi medici, sicurezza e packaging — e ha invitato a evitare “conclusioni premature”: le microplastiche, secondo Centonze, rappresenterebbero solo una frazione minima delle particelle che respiriamo quotidianamente (PM10, PM2,5 ecc.), e gli studi oggi disponibili — sostiene — sono spesso preliminari, con campioni ristretti e contesti di laboratorio poco realistici.

Le microplastiche sono generalmente definite come particelle plastiche solide, insolubili, di dimensioni inferiori a 5 millimetri (fino a livello micrometrico). Quando si scende sotto la soglia del micrometro si parla di nanoplastiche.

Le microplastiche possono essere primarie (prodotte direttamente, come granuli o microperle nei cosmetici) oppure secondarie (derivate dalla frammentazione di oggetti plastici più grandi).

Queste particelle sono state identificate nei mari più remoti, negli oceani profondi, nei ghiacciai, nella neve, nel suolo, nell’aria, negli organismi viventi, nell’acqua potabile e persino nel sangue umano.

Le fonti includono: degrado di rifiuti plastici, abrasione di pneumatici, fibre rilasciate da tessuti sintetici, usura di vernici, residui di imballaggi, inquinanti veicolati dall’acqua, microfibre domestiche scartate.

Secondo dati generali, ogni anno milioni di tonnellate di microplastiche finiscono nell’ambiente marino, contribuendo a un inquinamento cronico che difficilmente può essere invertito rapidamente.

Trasmissione e accumulo negli organismi viventi

Uno degli elementi più inquietanti è la capacità delle microplastiche (e soprattutto delle nanoplastiche) di attraversare barriere biologiche: studi in molluschi hanno dimostrato che microplastiche ingerite possono passare al sistema circolatorio. In mammiferi sperimentali, nanoparticelle di polistirene hanno attraversato membrane polmonari, raggiungendo organi profondi e provocando risposte infiammatorie o stress ossidativo in cellule isolate in laboratorio. Alcune ricerche suggeriscono che microplastiche siano presenti nel sangue di persone sane, e che, in alcuni casi, siano state rinvenute in placente o tessuti fetali.

Tuttavia, la quantificazione del carico, la posizione (in quale organo, in che concentrazione) e la relazione causale con malattie restano argomenti dibattuti e non ancora definiti.

 Studi epidemiologici

Alcuni studi autoptici hanno riportato concentrazioni più elevate di particelle in cervelli di persone con demenza rispetto a cervelli sani, ma il campione è limitato e non c’è certezza su causa-effetto.

In vitro, estratti di plastiche (PVC, poliuretano) hanno mostrato effetti su cellule legati a disfunzioni circadiane, stress ossidativo, risposta infiammatoria.

Sono state segnalate microplastiche in placente e latte materno, ma non è chiaro in che misura queste particelle siano biologicamente attive e dannose al feto o al neonato.

È spesso argomentato che il pericolo principale non sia solo la plastica in quanto tale, ma il fatto che molte microplastiche agiscano come veicoli per sostanze tossiche: ftalati, bisfenoli, metalli pesanti, additivi, contaminanti ambientali che possono aderire alla superficie delle particelle o essere incorporati.

In questo senso, il rischio non è solo la presenza fisica, ma il carico chimico che esse trasportano, e il potenziale rilascio in organi target.

Inquinamento plastico e consapevolezza crescente

Negli anni 2000 emerse la consapevolezza dell’inquinamento marino da plastica. All’inizio si parlava di “isole di plastica” galleggianti nei grandi oceani; poi le ricerche mostrarono che la plastica si frammenta finché non diventa invisibile. Con il tempo, sono stati rilevati microplastiche sui fondali, nei sedimenti, nei pesci, persino nei ghiacci del Polo.

La crescente documentazione ambientale ha spinto regolamenti: limiti ai microgranuli nei cosmetici, direttive europee per il riciclo, restrizioni sui monouso, impegni di economia circolare.

Negli ultimi dieci-quindici anni, le prime analisi hanno rilevato microplastiche nell’acqua potabile, nelle acque urbane, nei pesci, nelle acque dolci dei fiumi. A partire da studi sull’“Invisibles: The Plastic Inside Us” (Orb Media), l’attenzione si è focalizzata sul fatto che le microplastiche non rimangono solo nell’ambiente, ma entrano nella catena alimentare umana.

La ricerca biomedica ha iniziato a esplorare interazioni tra microplastiche e tessuti umani, ma spesso i limiti metodologici e la complessità biologica confinano i risultati in scenari «possibili» piuttosto che «dimostrati».

Un’eredità difficile da cancellare

Le microplastiche persistono a lungo. Anche se riducessimo oggi drasticamente l’uso di plastica, molti frammenti continuerebbero a degradarsi lentamente per decenni nei suoli, nei sedimenti marini, nei ghiacciai.

Esse possono esercitare impatti ecologici: interferenze nella respirazione dei suoli, stress per gli organismi marini, veicolazione di sostanze tossiche, effetto su reti trofiche. In più, si è ipotizzato che microplastiche atmosferiche possano influenzare la formazione delle nuvole e i processi climatici.

Un percorso di dialogo urgente

Lo scontro Berrino–Unionplast è importante perché mette a fuoco la tensione fra allarme e prudenza, tra preoccupazione pubblica e rigore scientifico. Se da un lato Berrino richiama l’urgenza, dall’altro Unionplast ricorda che la plastica — se gestita con saggezza — ha ruoli utili e non va demonizzata indiscriminatamente.

Il cammino richiede che la società non resti spettatrice. Occorre costruire un consenso intorno a regole, investimenti, cultura della sostenibilità.

Le microplastiche sono un fenomeno reale — invisibile ma presente — e aprono domande scomode: fino a che punto la plastica che permea la nostra vita può rimanere innocua? La dicotomia “veleno sì / no” è una semplificazione che non regge: serve differenziazione, studio rigoroso, attenzione alla complessità.

Il confronto Berrino-Unionplast ha il merito di portare il tema nella piazza pubblica. Ma ora occorre che scienziati, istituzioni, imprese e cittadini costruiscano insieme una trama di responsabilità e innovazione, dove non prevalga né l’allarme vuoto, né l’ignavia.

14 Ottobre 2025 ( modificato il 12 Ottobre 2025 | 21:29 )
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