9:06 am, 5 Ottobre 25 calendario

Israele e Hamas verso la pace?

Di: Redazione Metrotoday
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Partono oggi i colloqui di pace. Trump: “Non tollererò ritardi nell’attuazione del Piano”. Meloni, il piano di Trump squarcia le tenebre della guerra

Nel frastuono del conflitto che ormai da quasi due anni insanguina Gaza, si schiude una finestra di opportunità che fino a pochi giorni fa pareva impensabile: Israele e Hamas si avvicinano a colloqui di pace, mediati dal piano statunitense, mentre il presidente Donald Trump alza i toni negli Usa: “Non tollererò ritardi nell’attuazione del Piano”. In Italia, la premier Giorgia Meloni saluta l’iniziativa tracciata da Trump come un possibile squarcio nelle tenebre della guerra.

Ma come si è arrivati a questo punto? E quali nodi restano ancora da sciogliere perché la tregua non resti un’illusione? Per rispondere, bisogna tornare indietro: guardare al precipitare degli eventi e alle tensioni che da tempo rendono la pace fragile.

Il piano Trump: l’architettura del possibile

Il 29 settembre, Donald Trump ha presentato un nuovo piano di pace per Gaza, in parte evoluzione rispetto alle sue proposte precedenti. Il piano si compone di venti punti che includono: un cessate il fuoco immediato, lo scambio di ostaggi, il ritiro graduale delle forze israeliane da Gaza, la smilitarizzazione di Hamas, e l’istituzione di un’autorità transitoria tecnocratica per governare la Striscia post-conflitto. Israele avrebbe firmato l’adesione in sede di presentazione, imponendo però che Hamas accettasse integralmente tutte le condizioni.

L’annuncio è stato accompagnato da un ultimatum: Hamas avrebbe dovuto accettare la proposta entro domenica sera (ora di Washington) oppure Trump avrebbe avvertito che “tutto salta”.

Il piano è fortemente vincolato al rilascio immediato di tutti gli ostaggi (vivi e defunti), con garanzia che le operazioni militari israeliane si fermino, e sotto il controllo di una forza internazionale che vigili sul mantenimento della pace. In altri termini, una concessione parziale della sovranità di Gaza a un organismo intermediario, almeno per una fase transitoria.

Ma Trump non ha fatto cenno al fatto che il piano non era stato elaborato in collaborazione con la leadership palestinese né con Hamas, un punto che è emerso come uno dei principali fattori di attrito nelle risposte ufficiali.

La risposta di Hamas: un “sì, ma” con condizioni

Nella tarda notte del 3 ottobre 2025, Hamas ha risposto al piano dichiarando che in linea di principio accetta la proposta statunitense, soprattutto per quanto riguarda lo scambio di prigionieri e la cessazione delle ostilità. Il gruppo ha affermato che ordinerà la liberazione di tutti gli ostaggi restanti — vivi e deceduti — secondo la formula concertata nel piano di Trump, e intende avviare negoziati più dettagliati.

Ciononostante, Hamas non ha accettato senza riserve.

Le condizioni non negoziabili includono:

  • il rifiuto della smilitarizzazione completa (disarmare Hamas rimane per molti un “punto rosso”)
  • l’insistenza affinché Israele esca da Gaza prima che l’accordo sia applicato integralmente
  • la richiesta che il gruppo palestinese abbia un ruolo nell’amministrazione futura della Striscia, almeno in qualche forma
  • garanzie che la tregua non sia solo temporanea, ma che abbia basi concrete per la ricostruzione e la vita quotidiana

In altre parole, Hamas ha detto sì al concetto, ma no ad alcuni dei dettagli cardine.

L’atteggiamento è stato accolto da Trump con soddisfazione: su Truth Social ha scritto che “credo che Hamas sia pronto per una pace duratura e ha invitato Israele a fermare i bombardamenti per agevolare la liberazione sicura degli ostaggi.

Israele: dubbi e sospensione delle operazioni

L’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu ha reagito in modo rapido: ha annunciato che Israele è pronta a implementare la «prima fase» del piano, ovvero lo scambio di ostaggi. Tuttavia, non ha confermato un immediato cessate il fuoco totale, né un ritiro integrale delle sue forze.

Nelle ore successive, fonti israeliane hanno riferito che l’offensiva terrestre pianificata su Gaza City è stata sospesa o almeno ridotta, con operazioni limitate a obiettivi difensivi, in attesa degli sviluppi diplomatici.

Ma non tutto è chiaro. Alcuni analisti affermano che Israele usi la tregua strategicamente per riposizionarsi: mantenere pressione, ma evitare che Hamas rigeneri capacità operative durante la pausa. Altri osservatori vedono nel fatto che le dichiarazioni israeliane rimangano “cautamente favorevoli” una riserva: Israele esige che il piano sia eseguito esattamente secondo i suoi termini, senza che Hamas possa guadagnare spazi negoziali.

Nel frattempo, mentre Trump sollecita accelerazione, continue segnalazioni parlano di nuovi attacchi israeliani a Gaza: le uccisioni non si sono fermate nonostante i fermenti diplomatici. Secondo fonti, decine di civili sono morti nelle ultime ore in attacchi che Israele giustifica come colpi mirati contro elementi militari.

Meloni: l’Italia “vede la luce” con il piano

In Italia la risposta politica al piano statunitense è stata fulminea. La premier Giorgia Meloni ha rinnovato il “pieno sostegno” all’iniziativa di Trump, sottolineando che l’Italia è “pronta a fare la sua parte”.

In un tweet su X, ha scritto: «Seguo con grande attenzione gli sviluppi a Gaza. Rinnovo il mio pieno sostegno agli sforzi del presidente Trump per portare la pace nel Medio Oriente».

Meloni ha anche messo in guardia da iniziative che potrebbero minare la tregua, come la flottiglia internazionali per portare aiuti: ha definito tali operazioni un rischio di escalation che può “soffiare sulle polveri del conflitto” più che aiutare la popolazione di Gaza.

Sul piano interno, l’appoggio al piano Trump è coerente con la linea filo-Atlantica del governo, che ha già mostrato attenzione alle iniziative statunitensi in Medio Oriente come elementi di stabilità globale.

In altre capitali europee la reazione è, in generale, positiva: Francia, Regno Unito, altri Paesi Ue hanno invitato Hamas ad accettare l’offerta e premono affinché il piano si traduca in fatti, non in promesse velate.

Perché la pace è sempre sfumata

Per comprendere l’attuale momento occorre ripercorrere i tentativi — spesso falliti — di mediazione tra Israele e Hamas. Da almeno un decennio, ogni escalation bellica è seguita da negoziati mediati da Qatar, Egitto, Turchia e Onu. Le tregue temporanee sono state numerose, ma la stabilità duratura è rimasta un miraggio.

Nel 2023-2024 vi furono tentativi di cessate il fuoco con scambio di prigionieri, ma le condizioni spesso si arenarono su punti come il disarmo, la gestione di Gaza, il ritorno dei profughi e diritti di ricostruzione. Ogni volta che una parte ha percepito concessioni eccessive, la tregua è collassata.

C’è anche una questione di legittimazione: per Hamas, accettare un piano imposto da terzi può essere interpretato come resa. Per Israele, ogni concessione è sospettata di indebolire la propria sicurezza futura. Negli ultimi conflitti, l’idea stessa di “smilitarizzazione” di Gaza è stata una chiave che spesso ha aperto la serratura della guerra, ma solo per chiave troppo fragile.

Un precedente interessante è il piano di pace Trump di febbraio 2025, quando l’ex presidente propose che gli Stati Uniti assumessero il controllo amministrativo di Gaza e che molti palestinesi venissero temporaneamente spostati. Quel piano fu duramente criticato e respinto («Gaza Riviera», «espulsione forzata») da gran parte del mondo arabo e palestinese.

Il piano attuale — pur differente — reca l’ombra del precedente: cedere parte della sovranità locale, far capo a poteri esterni, disarmare Hamas. Tutto ciò continua a evocare paura tra i palestinesi e sospetto tra gli israeliani.

I nodi ancora da sciogliere

Anche se il vento diplomatico cambia direzione, restano nodi sanguinosi. Ne elenchiamo alcuni:

Disarmo di Hamas

Il piano richiede che Hamas deponga le armi o le consegni a un’autorità internazionale. Ma Hamas considera la sua capacità militare parte fondamentale della propria legittimità politica e simbolica: smantellarla significa rinunciare all’essenza stessa di “resistenza”.

Responsabilità sul governo di Gaza

Trump propone che Gaza sia amministrata da tecnocrati internazionali in una fase transitoria, senza ruolo per Hamas. Ma per molti palestinesi, una Striscia privata di protagonismo politico diventa colonia.

Verifiche e garanzie

Serve una forza internazionale credibile che monitori il cessate il fuoco, le operazioni future, e che abbia il potere — reale, non simbolico — di intervenire in caso di violazioni.

Partecipazione araba e regionale

Egitto, Qatar, Giordania, Turchia sono attori chiave. La legittimazione politica del piano dipende dalla loro adesione e capacità di mediazione sul terreno palestinese e nella Lega Araba.

Ricostruzione e diritti civili

Dopo gli attacchi distruttivi, la ricostruzione di case, infrastrutture, reti elettriche e idriche sarà una prova concreta della pace. Senza fondi e continuità, la tregua rischia di essere un capestro.

Rottura della fiducia

Dopo decenni di conflitti, ogni parte teme che l’altra non rispetti gli accordi. È la fiducia il grande vuoto da colmare.

Interessi e risorse in campo

Dietro alle dichiarazioni pubbliche si muovono strategie sottili:

  • Gli Stati Uniti puntano a rafforzare il loro ruolo mediatore, gettando le basi per un ordine in Medio Oriente che renda meno centrale il conflitto israelo-palestinese come fulcro di instabilità.
  • Israele vuole ottenere legittimità diplomatica, mantenere la supremazia militare e evitare l’accusa internazionale di aggressione indiscriminata. Accettare il piano può permettere di uscire dal conflitto con qualche “vittoria politica”, ma a rischio interno.
  • Hamas gioca una partita complessa: accettare per non soccombere, ma non troppo da perdere il proprio essere. Deve mantenere il consenso interno per evitare rotture tra ala politica e ala militare.
  • Stati arabi come Egitto, Qatar, Turchia, Giordania hanno legami profondi con Gaza e con i palestinesi; vogliono evitare ondate migratorie, stabilità sul loro confine e credibilità come mediatori.
  • La comunità internazionale e l’Unione Europea attendono segnali concreti: non basta il piano, serve che si traduca in riduzione della violenza, accesso umanitario, dialogo politico.
  • Opinione pubblica palestinese e israeliana: i cittadini resistono tra paura, dolore e speranza. Ogni atto violento, ogni rottura negoziale, alimenta scetticismo.

La pace “condizionale”

Gli accordi vengono applicati su alcuni fronti: rilascio ostaggi, ritiro controllato, avvio della ricostruzione, con supervisione internazionale. Un equilibrio fragile, soggetto a passaggi successivi.

Se una delle parti sentirà tradito l’accordo — per ritardi, omissioni, attacchi — la guerra potrebbe riprendere con rinnovato vigore. Questo è lo scenario peggiore, che molti temono.

Donald Trump ha già avvertito che non tollererà ritardi: «Let’s get this done, FAST. Everyone will be treated fairly!» ha scritto su Truth Social.

Il piano Trump ha aperto una breccia nel tunnel della guerra: l’onore del dialogo e la promessa di liberare ostaggi sembrano segnali incoraggianti. Ma troppo dipende da chi avrà il coraggio di fare il primo passo, e dalla capacità delle parti di rispettare gli impegni in sequenza, senza ritardi.

Per Meloni e per l’Italia, sostenere una pace negoziata significa puntare su un Medio Oriente stabile e su un ruolo diplomatico attivo. Ma la vera posta in gioco non è solo geopolitica: è il destino di vite spezzate, città distrutte, speranze in frantumi.

5 Ottobre 2025 ( modificato il 4 Ottobre 2025 | 23:22 )
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