11:34 am, 12 Settembre 25 calendario

“Va compreso”: la sentenza che scuote Torino e l’Italia

Di: Redazione Metrotoday
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Una sentenza che accende il dibattito sulla violenza di genere, sul ruolo della giustizia, sulle parole che i giudici scelgono. Il 28 luglio 2022, Lucia Regna, 44 anni, fu brutalmente aggredita dall’ex compagno. Sette minuti di violenza inaudita, che lasciarono il suo volto devastato, ricostruito con 21 placche di titanio, e un danno permanente al nervo oculare.

Eppure, a distanza di tre anni da quell’episodio, l’uomo non finirà in carcere. Perché secondo le motivazioni del giudice Paolo Gallo del tribunale di Torino, si tratta non di un accesso d’ira immotivato, bensì di uno sfogo “riconducibile alla logica delle relazioni umane”. È in queste parole che si condensano la controversia, il dolore, la risonanza pubblica.

I fatti: cosa è successo

Data dell’aggressione: 28 luglio 2022.

Vittima: Lucia Regna, 44 anni.

Imputato: l’ex compagno, con cui aveva un matrimonio di vent’anni e due figli.

Danno subito: gravissime lesioni, con il volto distrutto, il nervo oculare lesionato in modo permanente. Dopo l’aggressione, Lucia ha dovuto subire interventi chirurgici importanti, 21 placche di titanio applicate al volto. Prognosi di 90 giorni.

L’atto di accusa iniziale parlava di maltrattamenti, lesioni aggravate, minacce ripetute. La pubblica accusa chiedeva 4 anni e mezzo di carcere.

La sentenza: assoluzione dall’accusa di maltrattamenti, lieve condanna per lesioni

Nel corso del procedimento:

Il giudice Paolo Gallo ha assolto l’imputato dall’accusa di maltrattamenti, riconoscendo però il reato di lesioni.

La pena fissata è di un anno e sei mesi, con sospensione condizionale. Nessuna detenzione in carcere.

Le motivazioni sono quelle che più hanno fatto discutere: l’uomo, secondo il giudice, non ha agito con un accesso d’ira “immotivato”; al contrario, la separazione “in maniera brutale” da parte della donna è stata ritenuta causa scatenante dell’“amarezza” del marito.

Nel testo delle motivazioni, si legge che la donna avrebbe “sfaldato un matrimonio ventennale” comunicando la fine della relazione con bruschezza. Le minacce e gli insulti «da calare nel contesto della dissoluzione della comunità domestica, umanamente comprensibile». L’imputato è definito “sincero e persuasivo”.

La reazione sociale: indignazione, discussione, campagna

La vicenda non è rimasta confinata ai tribunali: ha evocato reazioni forti da parte dell’opinione pubblica, delle associazioni per la difesa delle donne, degli avvocati, anche della politica.

L’avvocata di parte civile, Annalisa Baratto, ha definito la sentenza “una vivisezione” della vittima, “mortificante”. Sostiene che si dà più peso alla versione dell’aggressore, che all’effetto devastante della violenza subita.

I figli di Lucia Regna, anch’essi parti lese, hanno promosso una campagna contro la violenza di genere: lo scorso novembre avevano affisso a scuola la foto del volto tumefatto della madre con la scritta “Donne, denunciate subito”.

Interventi pubblici: la Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio ha chiesto copia degli atti del procedimento, per verificare come siano state formulate le motivazioni giudiziarie.

Il contesto giuridico e culturale

Per comprendere la portata del dibattito, è utile guardare alle leggi, alle precedenti sentenze, e ai meccanismi culturali che influiscono su casi come questo.

La normativa su violenza domestica e maltrattamenti

In Italia, il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi è previsto dal Codice penale; la violenza domestica comprende non solo lesioni fisiche, ma anche minacce, vessazioni psicologiche, atteggiamenti persecutori. La giurisprudenza ha più volte riconosciuto che non solo gli schiaffi o i pugni, ma anche la violenza verbale, le minacce, il controllo economico fanno parte del quadro di maltrattamento.

Spesso, però, la distinzione tra “maltrattamenti” e “lesioni” appare determinante dal punto di vista della pena, delle misure cautelari, delle pene detentive. E in questo caso è proprio la distinzione che ha fatto la differenza.

Precedenti giudiziari controversi

Non è la prima volta che la giustizia italiana è chiamata a giudicare casi con violenza grave ma pene relativamente lievi o fraintendimenti su cosa sia “umanamente comprensibile”. Alcune sentenze hanno suscitato indignazione quando hanno abbassato le accuse, hanno concesso attenuanti legate a stati emotivi o “provocazioni”, quando le vittime sono state in qualche modo “colpevolizzate” per la rottura di relazioni.

Esiste una lunga storia di dibattito sulla responsabilità penale, sull’abuso del concetto di “provocazione”, sull’uso di attenuanti morali nei casi di violenza domestica. Alcune decisioni recenti delle corti di appello hanno censurato sentenze in cui si dava rilievo eccessivo al comportamento della vittima nel preparare la separazione o nel reagire verbalmente.

La cultura del giudizio

C’è anche un tema culturale radicato: la percezione che la fine di un matrimonio, la rottura, il dolore emozionale possano in qualche modo giustificare reazioni violente. La tendenza, in alcuni casi, è cercare di comprendere l’aggressore piuttosto che acuire la responsabilità, specie se egli mostra elementi come pentimento, “sentimento di torto”, “sofferenza psicologica”.

Questa linea interpretativa, già vista in decine di sentenze, alimenta il dibattito su quanto la giustizia debba essere implacabile e quanto debba soppesare la dimensione psicologica e umana, a rischio però di relativizzare la gravità della violenza.

Le domande che il caso solleva

Quando una violenza estrema diventa “umanamente comprensibile”? Dove tracciare il confine tra spiegazione e giustificazione?

Quanto contano le motivazioni morali o psicologiche per mitigare le pene? E quanto pesa nella percezione sociale della giustizia?

Che ruolo hanno le vittime nel processo giudiziario oltre la mera testimonianza fisica? Quando la loro sofferenza fisica viene riconosciuta, quanto viene riconosciuta anche quella psicologica?

Qual è il messaggio per le donne che denunciano? Se la separazione o la decisione di uscire da una relazione abusiva può essere usata come elemento attenuante contro di loro, che effetto produce sulla disponibilità a denunciare?

Confronti con casi analoghi

Casi in cui aggressioni gravi sono state giudicate ma con pene sospese, condizionali, attenuanti. In alcuni casi simili, quando la violenza è fisica grave, molte sentenze hanno suscitato proteste quando non vengono riconosciuti i maltrattamenti, o quando c’è una riduzione significativa degli addebiti penalizzanti.

Le campagne di sensibilizzazione degli ultimi anni, le modifiche legislative (anche su suggerimento della Corte europea dei diritti dell’uomo) hanno fatto sì che si metta maggiore attenzione alla violenza psicologica, ai comportamenti ripetuti, alla protezione delle vittime. Ma questo caso mostra che non c’è ancora uniformità nelle applicazioni giudiziarie.

Implicazioni pratiche e sociali

Sfiducia nella giustizia: sentenze come questa rischiano di produrre scoramento tra le vittime di violenza domestica, di alimentare l’idea che denunciare non basti, che la pena sarà lieve.

Rischio di normalizzazione della violenza: se la violenza estrema viene “compresa” come reazione alla sofferenza, si rischia di inviare un messaggio pericoloso, sociale, che le aggressioni abbiano scusanti umane.

Effetti sulle politiche pubbliche: sono sempre più richiesti interventi legislativi più stringenti, linee guida per i giudici, formazione sulla violenza di genere, maggiori pene o minori attenuanti quando l’aggressione è grave e provata.

Media e opinione pubblica: la narrazione che accompagna casi simili ha enorme peso: parole come “pestaggio”, “massacrò”, “assolto” generano shock. Ma le motivazioni giudiziarie – l’attenuante dell’amarezza, il “sentimento del torto” – diventano materia di discussione, divisione, indignazione.

Cambiamenti futuri

Legge o riforme che possano definire limiti più stretti all’uso delle attenuanti “morali” nei casi di violenza domestica.

Linee guida ministeriali o della magistratura per evitare che frasi come “va compreso”, “amarezza”, “provocazione” diventino argomenti di diritto che sminuiscono la gravità del fatto.

Ampliare l’ambito giuridico del maltrattamento, includendo esplicitamente nelle costituzioni delle sentenze comportamenti psicologici, verbali e minacce ripetute, con pene più severe quando la vittima subisce danni fisici gravi.

Maggiore formazione dei magistrati su dinamiche relazionali, violenza di genere, trauma, psicologia di abuso.

Rafforzamento del sostegno alle vittime: centri antiviolenza, assistenza legale, supporto psicologico, fondi per facilitare la denuncia e la protezione.

La sentenza del tribunale di Torino contro l’ex che massacrò Lucia Regna non è solo un caso di cronaca: è uno specchio di come la società, la cultura, e il diritto affrontano o faticano ad affrontare la violenza sulle donne. Le parole del giudice – seppure comprese in un contesto legale che prevede attenuanti e valutazioni – scuotono per quel “va compreso” che sembra relativizzare l’inaccettabile.

Lucia Regna ora vive con le ferite, non solo fisiche ma anche morali; la sua vicenda pone domande che vanno oltre il tribunale: cosa significa giustizia per una vittima? Qual è il ruolo dello Stato nel proteggere, nel giudicare senza minimizzare il dolore e la brutalità degli atti?

Se la legge ci consegna sentenze come questa, la sfida è recuperare — nella pratica e nel senso comune — che non si tratta semplicemente di capire, ma di giudicare con fermezza.

12 Settembre 2025
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