Daniel Day-Lewis torna con il figlio, Anemone a Alice nella città

Tra eremi, rami spezzati e legami familiari
Sul red carpet dell’Auditorium della Conciliazione, nell’ambito di Alice nella città, si è materializzato un ritorno che non passava inosservato: Daniel Day-Lewis, tre volte premio Oscar, protagonista di Anemone, il film scritto insieme al figlio Ronan e diretto dallo stesso Ronan Day-Lewis. La presenza dell’attore a Roma ha offerto il quadro pubblico di una scelta che mescola eredità artistica, dinamiche familiari e il fascino — per alcuni controverso — del ritorno alla scena dopo anni di ritiro.
Anemone racconta la vicenda di un uomo ritiratosi dalla vita civile, immerso nella natura, che fatica a ricucire i legami con la famiglia e con il proprio passato. La foresta, i sentieri interrotti e i rami spezzati diventano metafora visiva di una mente lacerata e di una fratellanza complicata: l’ambientazione nel nord dell’Inghilterra, le atmosfere cupe e il confronto intergenerazionale tra padri, figli e fratelli costituiscono il nucleo tematico dell’opera. La sceneggiatura porta la doppia firma dei Day-Lewis — padre e figlio — e intreccia motivi autobiografici possibili con un racconto costruito per immagini e silenzi.
La scelta di Daniel Day-Lewis di tornare davanti alla macchina da presa — una decisione che aveva sorpreso il mondo del cinema dopo il suo annuncio di ritiro ufficiale nel 2017 — è stata narrata come un atto di fiducia verso il progetto del figlio. Non si trattava soltanto di una comparsata d’onore: Day-Lewis è il fulcro drammatico del film, chiamato a sostenere pagine di grande intensità emotiva. Tale coinvolgimento ha aperto a discussioni sul valore della “messa in gioco” di un attore di riferimento per le nuove generazioni e sui rischi di una «leggenda» nutrita di aspettative.
Allo stesso tempo, la critica ha accolto Anemone con risposte miste. Se molti hanno elogiato la tensione delle immagini, la fotografia e, non di meno, la performance di Day-Lewis, altre recensioni hanno segnalato lacune nella costruzione narrativa e nell’equilibrio del tono: a tratti il film viene percepito come un procedere a cerchi, dove la magnificenza attoriale non sempre riesce a riscattare la fragilità del testo. Queste letture riflettono una tensione oggi frequente nel cinema d’autore: l’abilità virtuosa dell’interprete contro la sostanza e la coesione del progetto complessivo.
La presentazione romana inserisce Anemone in un circuito che guarda ai giovani autori — proprio la missione di Alice nella città — e consegna al pubblico italiano il primo contatto con un’opera che, più che definire un «ritorno», sembra voler inaugurare un dialogo fra generazioni. Ronan Day-Lewis, esordiente alla regia per il lungometraggio, si misura con una materia ingombrante: la presenza del padre, la storia della famiglia (con radici tra Stati Uniti e Gran Bretagna), e la necessità di trovare una lingua cinematografica proprio per quel tema dell’eredità morale e psicologica.
Dietro le quinte di Anemone si scorge anche il lavoro di una squadra internazionale: attori noti — fra cui Sean Bean e Samantha Morton — e collaboratori tecnici che puntano a costruire intorno alla vicenda un’atmosfera ipnotica. A guidare il suono e la fotografia sono nomi già noti per il loro mestiere di precisione, mentre la produzione internazionale ha permesso al film di muoversi tra festival e uscite programmabili in diversi mercati. L’uscita in sala in alcuni paesi è avvenuta in autunno; il calendario delle distribuzioni mostra la volontà di misurarsi anche con il pubblico oltre la vetrina festivaliera.
Accogliere il film a Alice nella città ha significato non solo celebrare la presenza dell’attore, ma anche mettere sotto i riflettori la questione di come il cinema contemporaneo affronta storie intime, frammentate, votate alla ricostruzione di legami rotti. In sala, tra applausi e sussurri critici, lo spettatore si trova di fronte a una scelta formale: restare dentro la lente emotiva dell’autore-interprete o chiedere al testo una struttura più serrata. Entrambe le posizioni possono coesistere, e forse è proprio in questo spazio ambiguo che Anemone chiede di essere letto — come tentativo di dare forma cinematografica a ciò che spesso rimane irrisolto nel quotidiano: il confronto fra generazioni, la trasmissione del trauma, la possibilità di redenzione.
Infine, lo sguardo su Anemone non può evitare la dimensione simbolica: i rami spezzati, le strade di bosco, la casa ritirata sono simboli che appartengono alla tradizione del cinema britannico del lutto e della memoria — eppure qui si trovano anche filtrati attraverso la sensibilità di un giovane regista che porta con sé un nome ingombrante. Il dialogo — a tratti incerto, a tratti potente — tra una figura carismatica come Daniel Day-Lewis e il talento emergente del figlio compone una storia nel film e fuori: una storia di passaggi di consegna, di attese, e di quella pratica umana che è il tentativo di raccontare la propria famiglia per capire il mondo.
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