Chiara Appendino si dimette da vicepresidente del M5S: frattura interna e scommessa sul futuro

In un pomeriggio denso di tensioni e correzioni di rotta, Chiara Appendino ha ufficialmente rassegnato le dimissioni dal ruolo di vicepresidente nazionale del Movimento 5 Stelle. La decisione, comunicata durante l’attuale Consiglio nazionale in corso sulla piattaforma Zoom, non è arrivata come un fulmine a ciel sereno: dentro il M5S si respirava da giorni una sorta di “scossa programmata”, destinata a rompere gli equilibri interni.
Appendino, deputata e già sindaca di Torino, ha dichiarato di assumersi la responsabilità di questa scelta con l’obiettivo di stimolare un rilancio nel partito: “Dobbiamo metterci tutti in discussione e lo faccio io per prima”, ha spiegato ai colleghi. La misura dirompente non si limita a un atto simbolico: porta in seno al Movimento la questione centrale su cui da tempo si scontrano due visioni contrastanti: quella della “linea di governo” in alleanza con il centrosinistra, e quella di una postura più autonoma e identitaria.
Le ragioni alla base della scelta
La molla che ha spinto Appendino al gesto estremo è legata in primo luogo ai risultati elettorali (in particolare la débâcle in Toscana, con il M5S attestato attorno al 4,34 % nelle ultime regionali), che hanno riacceso i malumori interni riguardo alla strategia del partito. Secondo la sua lettura, il Movimento rischia di essere fagocitato dalle scelte del Pd se non ridefinisce margini e posizioni.
Nell’assemblea congiunta dei parlamentari di qualche giorno fa, Appendino avrebbe fatto esplicita richiesta di «autocritica» e minacciato le dimissioni come gesto di rottura nel caso non si ravvivasse una dialettica interna. Conte, però, aveva minimizzato, affermando di non aver mai ricevuto comunicazioni ufficiali in tal senso. Solo oggi, attraverso il Consiglio nazionale, la decisione è stata formalizzata.
Dietro al gesto c’è anche un’aspirazione più larga: che la leadership del Movimento 5 Stelle non si limiti a garantire compatibilità nelle coalizioni, ma torni a essere volano generativo di differenti sensibilità e battaglie tratte dal contesto. Appendino ha insistito molto su questo punto negli ultimi mesi, avvertendo che alleanze senza una chiara identità rischiano di svuotare il “marchio” storico del M5S.
Questo non è il primo momento in cui Appendino confronta la leadership del movimento. Già nel novembre 2024, in vista dell’Assemblea costituente (denominata “Nova”), aveva preso pubblicamente le distanze da qualsiasi alleanza strutturale con il Pd, sostenendo che il Movimento dovesse prima ritrovare sé stesso e poi ragionare sui possibili accordi.
In quell’occasione, aveva rilanciato la prospettiva che il M5S non fosse “né di Conte né di Grillo, ma della comunità”, ponendo l’accento sull’identità politica piuttosto che sull’appartenenza personale. Quel posizionamento l’aveva collocata su un crinale spesso non apprezzato dai sostenitori più filo-conteiani, ma le aveva attribuito un ruolo di figura critica all’interno del partito.
In passato, Appendino era anche stata al centro di controversie durante la sua esperienza torinese come sindaco: nel 2020 aveva deciso di non ricandidarsi per il secondo mandato, citando la coerenza con le regole interne del M5S e riflessioni sull’impatto della sua stessa condanna (per falso) — un gesto che aveva richiesto una forte dose di responsabilità politica in un momento di fragilità personale e mediatica.
Lo scontro con Conte e le reazioni interne
La scelta di Appendino non poteva non provocare reazioni immediate nella leadership di Giuseppe Conte. Secondo fonti giornalistiche, il contendere è degenerato in un rimprovero del presidente: “Ha fatto uscire la notizia da sé, non si fa così”, avrebbe detto Conte rifacendosi al modo con cui la questione è stata “svoltata” nell’opinione pubblica. In particolare il nodo contestato è che Appendino non avrebbe mai comunicato formalmente la decisione al leader nei giorni scorsi.
Alcuni dirigenti contiani — riferiscono i media — hanno definito il gesto di Appendino come un’operazione “mediaticamente maldestra”, tesa a ottenere “mani libere” per agire su scelte che in passato la vincolavano.
Nel frattempo, si fanno i nomi dei possibili successori: Paola Taverna figura spesso negli elenchi, oltre ad altri esponenti che potrebbero incarnare una posizione ponte tra corrente “rinnovatrice” e linee tradizionali del partito.
Tra i parlamentari la reazione è mista: c’è chi riconosce il valore del gesto come stimolo dialettico, chi teme una crisi di leadership. A Torino, la capogruppo M5S Andrea Russi ha osservato che «ci sono questioni da confrontarsi» e che la linea ufficiale resterà quella della “forza progressista indipendente” finché non sarà definito il nuovo assetto.
La mossa di Appendino produce diverse conseguenze potenziali, tutte con un impatto significativo sull’equilibrio del M5S:
Rinvigorire il dibattito identitario
Il gesto può accendere una discussione interna su cosa significhi oggi essere “cinque stelle”: se una forza di supporto a coalizioni o un soggetto capace di attrarre consenso proprio grazie a una linea autonoma.
Rischio di frattura o scissione
Se il confronto degenerasse, l’uscita di figure “riformiste” oppure la nascita di correnti interne (o addirittura nuove realtà politiche) non sarebbero da escludersi.
Ridefinizione del rapporto con il Pd
Il tema dell’alleanza strutturale con i democratici, da tempo terreno di frattura, tornerà al centro del dibattito. Il M5S potrà cercare di stipulare intese a geometria variabile, oppure osare un ritorno a posizioni più “agnostiche”.
Rinnovamento dei vertici e leadership
In vista del rinnovo dei vertici (presidente, vicepresidenti, organi di garanzia), la dimissione di Appendino può modificare i rapporti di forza e portare a una nuova generazione dirigenziale più dialogante con istanze riformiste.
Impatto sui territori e sul consenso
Se il Movimento apparisse troppo diviso, gli elettori potrebbero disaffezionarsi ulteriormente. Se invece saprà trarre da questa crisi una nuova coesione, potrebbe rilanciare il progetto con serietà.
Tra coerenza e ambivalenza
Chiara Appendino è entrata nel panorama nazionale del M5S con un’immagine di sindaca giovane e radicale, capace di rompere lo schema della “politica vecchia”. La sua elezione a Torino nel 2016 rappresentava una svolta significativa: una città di grande peso e tradizione affidata a una figura espressione del Movimento. Ha gestito la transizione amministrativa con attenzione rispetto ai principi – e con decisioni spesso qualificate.
Nel corso degli anni ha manifestato contraddizioni tipiche delle figure politiche poste tra “radicalità originaria” e responsabilità istituzionali. Le sue posizioni critiche sull’alleanza con il Pd non sono nuove: già nel 2024 aveva pubblico dissenso verso intese “strutturali”. Tuttavia, è rimasta una figura non del tutto marginale nella dirigenza M5S, capace di rappresentare un pericolo per la stabilità della leadership senza isolarsi del tutto.
La sua dimissione da vicepresidente non è un addio al Movimento, ma un segnale forte: non di resa, bensì di sfida. Se saprà farsene carico fino in fondo, potrebbe avere un ruolo da “corrente critica” più rilevante di quanto molti nel partito sospettassero.
Il gesto di Appendino non può essere ridotto a un semplice “passo indietro”: porta con sé una chiamata d’attenzione su temi che attraversano il M5S da molti anni — identità politica, autonomia, rapporti di forza con alleati e leadership.
Può essere l’innesco di una stagione in cui il Movimento si ripensi davvero, oppure l’avvio di una crisi irreversibile. In ogni caso, la partita che si apre oggi somiglia più a una verifica di senso che a una crisi di potere: se il M5S vuole sopravvivere come soggetto politico significativo, non basterà nominare un nuovo vicepresidente. Occorrerà scrivere una nuova visione — fuori e dentro le alleanze.
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