Fico, il fuitevenne di Eduardo e il «Nobel per la chimica» a Trump

Provocazione e attrazioni narrative, un mosaico di ironia, memoria, politica e polemiche
La sezione «Lettere» del quotidiano Repubblica pubblica un testo breve ma pungente intitolato “Fico e il fuitevenne di Eduardo. Trump, il Nobel per la chimica”. È un miscuglio di citazioni cultural‑pop, battute di stampo provocatorio e richiami al passato teatrale e politico. L’autore non è un editorialista di grido, ma un lettore che ha intessuto in poche righe un ponte tra Napoli, il teatro dialettale, la figura di Roberto Fico e una provocazione surreale: l’assegnazione di un Nobel per la chimica a Donald Trump — che evidentemente non esiste, come anche il “fuitevenne” non è un concetto immediatamente riconoscibile fuori da un contesto partenopeo.
Quel testo, pur nella sua brevità e nella sua atmosfera paradossale, ha suscitato più curiosità che sospetto, stimolando interrogativi. Ci si propone di decodificare quel messaggio, contestualizzarlo storicamente, esplorare i rimandi culturali del “fuitevenne” eduardiano, collocare Fico nel panorama politico in cui è citato, e analizzare il senso profondo — se c’è — della provocazione “Trump, Nobel per la chimica”.
Il fuitevenne di Eduardo: cosa significa, da dove viene
Il termine “fuitevenne” non appartiene al vocabolario comune italiano, né figurava come parola nota nella linguistica standard o nei dizionari napoletani contemporanei prima che la sua “rinascita” teatrale avvenisse in spettacoli ispirati a Eduardo: la sua forza evocativa è legata al mondo del dialetto, della memoria partenopea, della drammaturgia che mescola il tragico al comico.
Il “fuitevenne” — letteralmente “fuggi, te ne vai” — richiama un invito a sottrarsi, un proclama di resa all’esodo o al distacco: significa “scappa”, “vattene”, “sparisci”. È un’espressione che suona come un grido, un lamento che diventa battito scenico — come se in un teatro o in una casa qualcuno dicesse: «vai via, vattene, lascia tutto». È insieme un atto di ribellione e una resa, e ha un riverbero di malinconia culturale: Napoli che esorta a fuggire, ma al contempo non può abbandonare se stessa.
Sul palcoscenico contemporaneo, il termine è stato ripreso e reinterpretato. Nel 2015, l’attore Gigi Savoia pronunciò un discorso post‑spettacolo: «Noi tenteremo di smentire quel grido di dolore, che poi tanto non era sbagliato, quel fuitevenne eduardiano. Noi tenteremo di restare in questa città...». L’idea era che il fuitevenne rappresentasse una sfida narrativa: dopo il grido che invita a scappare, c’è l’urgenza di restare, di resistere culturalmente alla dissoluzione.
In un’altra occasione, la compagnia dei “Fuitevenne – Raccontando Eduardo” portò in tournée spettacoli con sketch, poesie e monologhi che ripercorrevano la vita dell’autore, rendendo il termine emblematico della sua eredità. Usato come nome della rassegna, “Fuitevenne” evocava la fuga, la memoria, l’assenza e la presenza dell’autore nel cuore della scena napoletana moderna.
Tuttavia, il “fuitevenne di Eduardo” non è usato come titolo di spettacolo, ma in senso metaforico: Fico (cioè la figura pubblica) e quel grido teatrale rimandano a un presente che spinge a fuggire, ad abbandonare, a staccarsi dal retaggio culturale. C’è una nostalgia implicita, una critica al radicamento che si sfalda, un rimprovero ai soggetti politici e culturali che non sanno resistere — e un invito implicito a non “fuggire”.
È dunque un’arma retorica che coniuga cultura locale e provocazione politica: chi legge riconosce “Eduardo” e accenna alla città, chi non lo riconosce può considerarla una parola straniera e inquietante. Quel termine diventa una lente critica: chi parte, chi resta, chi ha il diritto di restare o fuggire.
Roberto Fico nel mirino della lettera: profilo e incarnazione
Roberto Fico, figura politica nota nel panorama italiano, ha una storia e un’identità che lo rendono simbolico: esponente “storico” del Movimento 5 Stelle, già presidente della Camera dei Deputati, considerato spesso come un volto istituzionale e “di garanzia” nel panorama pentastellato.
Nel dibattito politico, è accumulate varie definizioni: da “arbitro” interno al Movimento a “eterno riserva” — ovvero colui che è sempre dietro le quinte e non mai al centro — e spesso percepito come una figura che può incarnare un’alternativa alle istanze più radicali del Movimento.
La scelta di citare Fico nella lettera connessa a “fuitevenne di Eduardo” ha una forza implicita: si tratta di mettere in contrapposizione la città, la cultura napoletana, la tradizione, la memoria — incarnate da Eduardo — con l’individuo politico che può rappresentare il potere, la misurazione, la distanza istituzionale. Fico diventa il bersaglio ideale per il grido di chi sente che la politica non ascolta, che la città perde il suo spirito, che la memoria si attenua.
Nel corso degli anni, Fico ha costruito un profilo relativamente stabile: critico verso la “politica dei leader”, difensore di certi diritti civili, promotore di una partecipazione giovane, sostenitore della trasparenza parlamentare. Tuttavia, non ha mai raccolto grandi successi elettorali a livello locale (a Napoli, in Campania) — le sue precedenti candidature non hanno conquistato larghi consensi.
Alcuni osservatori lo descrivono come chi ha mantenuto una “aria istituzionale” nel Movimento 5 Stelle, capace di interlocuzioni anche con schieramenti moderati.
Allo stesso tempo, i suoi passi politici sono stati guardati con sospetto da chi lo voleva più radicale, da chi lo rimproverava di scarsa incisività, da chi pensava che non sapesse rompere i vincoli del sistema partito.
In questa prospettiva, nella lettera, Fico è l’attore davanti al quale si lancia il fuitevenne: è colui che può cedere, distaccarsi, far svanire la memoria della città in favore di una neutralità istituzionale. Quella lettera cerca — forse — di provocarlo, chiamarlo in causa: resti o fugga?
La provocazione “Trump, il Nobel per la chimica”: satira, esagerazione, specchio dei tempi
Nel testo, accanto al richiamo a Eduardo e Fico, appare la frase “Trump, il Nobel per la chimica”. È una provocazione che balza agli occhi: curiosa, assurda, ironica. Nessuna istituzione reale ha mai conferito un Nobel per la chimica a Donald Trump — e la congiunzione appare come un’esagerazione intenzionale, un nonsenso satirico che rompe la tensione culturale con un elemento estraneo, esotico e dissonante.
Quel tipo di inserimento è tipico della satira politica: si introduce un elemento straordinario per collassare ogni serietà in una risata amara, un’iperbole che mostra il grado di disillusione dell’autore rispetto ai premi, ai riconoscimenti, ai meriti. Se Trump può avere un “Nobel per la chimica”, allora tutto diventa possibile: la meritocrazia diventa un gioco arbitrario, la riconoscenza istituzionale diventa una commedia.
La presenza di quella frase serve a destabilizzare, a mettere in crisi il rigore del discorso: come se il testo dicesse: «guardate quanto è confuso il nostro presente se si può dare un Nobel per la chimica a Trump».a
Questo tipo di scrittura si inserisce in una tradizione lunga della satira politica che mescola riferimenti culturali e paradossi. L’idea è che la provocazione valga più (nel suo effetto) della proposizione razionale. Con quel “Nobel per la chimica”, la lettera induce il lettore a chiedersi: è uno scherzo? È parodia? È messaggio critico? È un modo per dire che le istituzioni premiano chi non merita?
In un’epoca di crisi della credibilità dei media e delle autorità, la satira diventa arma di rottura: chi scrive non pretende di convincere con argomentazioni, ma di frantumare la leggerezza del quotidiano con un’immagine straniante. E chi legge — se lo sa riconoscere — capisce la ragione più profonda: che il riconoscimento, la memoria, l’importanza culturale sono cose in pericolo.
Napoli, Eduardo, identità che vacillano
Il richiamo a Eduardo nella lettera non è casuale: Eduardo De Filippo è un simbolo fortissimo del teatro napoletano, della lingua, della dignità delle periferie, dell’umano quotidiano che resiste. È anche un simbolo che, col tempo, è stato istituzionalizzato: diventa oggetto di celebrazioni, musei, riletture artistiche, chili di saggi, ma sempre rischia di svilirsi nella “cultura da cartolina”.
Usare il termine fuitevenne richiama la memoria viva di quel teatro: la Napoli che ha parlato il dialetto, che ha cantato l’umanità, che si è fatta città nonostante le ferite, che ha resistito alle furbizie politiche, alle lotte mafiose, alle marce invisibili. Il grido è che la città non fugga dal suo genius loci culturale.
Se la politica prende distanza da quella memoria, se Fico (o qualsiasi figura istituzionale) diventa troppo neutra, troppo “di sistema”, troppo lontana dal suolo, allora quel fuitevenne assume letteralmente il valore di denuncia: che la città da cui provengo non mi rappresenta più, che la memoria sta evaporando.
Fico tra l’istituzionale e il cittadino
Fico è dunque un corpo politicamente mediato: nelle sue storie e nell’immagine pubblica ha cercato di tenere insieme rigore istituzionale e legame con le periferie, col disagio sociale, con la trasparenza. Ma la sua figura non è priva di ambiguità: molti osservatori lo hanno criticato per non saper “rompere”, per rimanere sempre un “dentro‑fuori” del Movimento, per oscillare tra autonomie e consensi centristi.
In quella lettera, Fico non è un soggetto solo politico, è una figura di resistenza morale: se fugge, se si allontana, se tradisce la memoria, il fuitevenne di Eduardo sarà la sua condanna simbolica. Se resta, potrà riconnettere politica e cultura, istituzione e città.
La provocazione “Trump, Nobel per la chimica” lo forza a riflettere: chi merita un riconoscimento oggi? Chi detiene il potere della parola, chi decide cosa è importante, chi decide che cos’è degno di memoria? E se i riconoscimenti possono essere “inventati”, allora tutto è soggetto alla manipolazione. Fico, se resta, può contrastare quell’arbitrio simbolico.
Non è la prima volta che Napoli è chiamata in lettera o in provocazione politica, usando figure culturali come simboli. Nei decenni passati, voci del Sud hanno scritto lettere aperte, appelli culturali, invocazioni di memoria in periodici e quotidiani. L’idea che la scrittura pubblica possa scuotere l’immaginario locale, che la satira possa incidere più della politica convenzionale, è una costante del meridionalismo culturale.
Non sorprende quindi che una “lettera di lettore” diventi campo di battaglia simbolico: in quell’unico spazio — tra le righe redazionali — si gioca l’identità di una città e la sua proiezione nel tempo.
Trump e i premi immaginari
Nel panorama contemporaneo, è frequente che figure politiche siano oggetto di premi ironici, meme che li innalzano parodisticamente. In vari talk show, satira televisiva, social media, Trump è spesso presentato come vincitore “del Nobel del nulla”, “premio dell’assurdo”, “premio del caos”. Quel collegamento “Nobel per la chimica” non è mai apparso (almeno nei contesti seri), ma richiama quella logica: usare l’eccesso per smascherare l’idiozia, trasformare la stupidità del presente in arma narrabile.
In quell’ottica, la lettera si inserisce in un humus contemporaneo dove la propaganda, il potere mediatico e la satira si intrecciano: il cittadino/lettore brandisce la parola come gesto culturale, non solo come segno individuale.
Se la lettera fosse ripresa da testate culturali o da riviste teatrali, potrebbe innescare una discussione: «Il fuitevenne nelle nuove drammaturgie», «La memoria eduardiana e la politica napoletana» o «Fico e l’identità meridionale nella sfida contemporanea». Potrebbe essere un seme che germina in un dialogo cittadino: la provocazione letteraria può essere uno stimolo per riflettere su chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare.
Se il fuitevenne fosse un grido a scappare, la lettera al contempo è un invito implicito a non farlo: occorre che qualcuno — artista, politico, cittadino — resti, si impegni, si collochi tra la memoria e il futuro. Chi resta non è chi non fugge per vigliaccheria, ma chi resiste nell’idea, nelle pratiche culturali, nelle parole. Fico — nella scelta retorica della lettera — è chiamato a incarnare questo restare.
La satira con “Trump, il Nobel per la chimica” serva da detonatore: spingere a pensare che se tutto può essere rovesciato, se tutto può essere nominato arbitrariamente, allora la memoria e il significato reale diventano fronti di lotta.
La lettera intitolata “Fico e il fuitevenne di Eduardo. Trump, il Nobel per la chimica” può apparire una curiosità effimera, una boutade da giornale. Ma nei suoi elementi ibridi — Eduardo, Fico, il termine fuitevenne, la provocazione paradossale su Trump — si compone un dispositivo narrativo che chiama in causa storia culturale, identità meridionale, crisi della parola pubblica e disillusione istituzionale.
Il fuitevenne eduardiano non è un semplice vocabolo teatrale: è la cifra di un grido che insiste quando la memoria trema. Fico non è solo un politico: è figura simbolica, e la lettera lo sfida a interpretare quel grido nel presente. Il “Nobel per la chimica a Trump” ha la valenza di uno specchio deformato in cui si riflette la nostra epoca liquida, in cui i premi possono essere inventati e i meriti cancellati.
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