Da flagello a paté e il granchio blu finisce nella ciotola dei gatti

Quel che fino a poco tempo fa appariva come una piaga ambientale nelle lagune del Nord Adriatico, oggi si trasforma — almeno nelle intenzioni — in una risorsa alimentare per animali domestici. È l’idea alla base del progetto Fil Blu, presentato di recente nello stabilimento Forza10, dove si sperimenta la trasformazione del granchio blu — specie invasiva in Italia — in farina proteica destinata a paté umidi per gatti. Con un prezzo di lancio di 1,75 euro a confezione, la “edizione speciale” è già pronta a essere distribuita nei negozi specializzati, mentre i ricavi netti vengono reinvestiti a sostegno delle comunità di pescatori che convivono con l’emergenza ecologica.
Ma dietro l’intuizione del “dal mare alla ciotola” si nascondono conflitti ecologici, tecnologie pionieristiche, speranze economiche e scelte etiche complesse. Questo articolo esplora come si è giunti fino a qui, quali sono i limiti, le prospettive e le incognite legate all’impresa.
L’invasione del granchio blu
Il granchio blu (Callinectes sapidus), originario della costa atlantica americana, è arrivato in Europa già da decenni, ma è nelle acque del Nord Adriatico che ha trovato un terreno di diffusione estremamente favorevole. Le sue capacità riproduttive, la tolleranza a condizioni variabili e l’adattabilità al clima gli hanno permesso di moltiplicarsi in fretta, diventando una specie invasiva di rilievo.
L’impatto per i pescatori è drammatico: massicce catture accidentali, alterazioni delle reti, consumi di risorse biologiche e predazione sulle specie autoctone. Le lagune costiere, un tempo ricche di molluschi come vongole e cozze, hanno visto un crollo produttivo. In molte aree è diventato più probabile pescare granchi blu che vongole veraci.
Secondo dati recenti, nel 2024 in Veneto sono state catturate 1.894 tonnellate di granchi blu, ma solo il 38 % di esse è stato venduto per uso alimentare: il resto è stato considerato scarto da smaltire. Questo stallo ha costretto molti pescatori a sopportare costi crescenti per la gestione del rifiuto e a diminuire la redditività delle loro attività
In molte lagune (polesine, orbetellane, Veneziane), la presenza del crostaceo ha raggiunto densità tali da rendere la pesca delle specie autoctone economicamente insostenibile. Alcuni pescatori stimano che per ogni “pesce utile” catturato finiscono nelle reti 30–40 granchi blu, anche in acque profonde 25‑30 metri.
Il valore economico della filiera dei molluschi colpita è stimato in oltre 200 milioni di euro, a cui va sommato l’indotto: operatori, trasformatori, trasporti, manodopera. In alcune zone costiere, decine di operatori hanno abbandonato l’attività, migrato, cercato alternative. Nel Polesine, il numero di pescatori attivi è calato in modo significativo.
Proprio in quei territori il nome del progetto è nato: Fil Blu (da “filiera blu”), che propone di convertire una specie “problema” in materia prima utile. Se tale trasformazione avrà successo, potrebbe rappresentare un nuovo modello di economia circolare applicata ai mari italiani.
L’idea di base: recuperare il granchio blu, trasformarlo in una farina proteica (disidratazione + macinazione), e inserirlo come ingrediente in paté umidi per gatti, un mercato di nicchia in cui i felini, notoriamente più esigenti dei cani, saranno il vero giudice della bontà del prodotto.
La sfida principale è tecnica: il granchio blu non è un crostaceo ideale per l’alimentazione tradizionale, per diversi motivi — contenuto d’acqua elevato, parti dure difficili da digerire, necessità di separazione fra carapace e polpa utile. Gli ingegneri e i biotecnologi delle università hanno sviluppato una macchina in grado di separare carapace e polpa, disidratare la massa residua e ottenere una farina ad alto valore biologico.
Nel laboratorio universitario, si è lavorato al progetto “RiPesca” (coordinato da Padova e Milano), con il supporto del Ministero dell’Agricoltura. Il sistema prevede anche la liofilizzazione e l’integrazione con materie prime equivalenti, per garantire equilibrio nutrizionale.
La farina prodotta è già stata testata nei laboratori di alimentazione animale: i primi panel con gatti hanno mostrato una certa accettabilità. L’ingrediente non è pensato per sostituire completamente le proteine tradizionali, ma per integrarle, offrendo una fonte alternativa e sostenibile.
Il paté “Special Edition”
Il prodotto finale è un alimento umido per gatti, venduto in confezioni monodose con etichetta “Special Edition Forza10 – con farina di granchio blu”. L’obiettivo è lanciare la versione in circa 370 punti vendita specializzati (non supermercati), nelle catene del pet, con espositori dedicati. Il prezzo di lancio: 1,75 euro ciascuna.
I ricavi netti — al netto dei costi di produzione e delle tasse — saranno devoluti al Consorzio dei pescatori per acquistare nuovi macchinari utili a incrementare la capacità di trasformazione, rendendo via via autonomo tutto il ciclo.
In Toscana, nel Golfo di Orbetello, le cooperative di pesca stanno negoziando con la Francia strategie condivise per affrontare l’espansione del crostaceo e valutare misure come fermi biologici, zone interdette e pesca rotativa.
Tutto questo suggerisce che la sfida non è locale, ma nazionale, coinvolgendo un litorale intero che deve reinventarsi nei rapporti con il mare.
L’idea di “mangiare granchio blu” per animali domestici può suscitare reazioni emotive: qualcuno potrebbe rifiutare l’idea per ragioni etiche (“non voglio che il mio gatto mangi specie invasiva”) o culturali. Serve una comunicazione chiara, trasparente e convincente.
Bisogna rispettare le normative nazionali e europee sui pet food, i limiti di contaminanti, l’etichettatura, la tracciabilità. Qualsiasi errore può generare richiami colossali.
La notizia del paté al granchio blu ha fatto rapidamente il giro dei media nazionali. Alcune testate hanno messo in evidenza il passaggio da «emergenza ambientale» a «opportunità economica». Il Corriere ha dedicato una pagina al “riscatto del Polesine”, raccontando storie di pescatori che hanno cambiato mestiere per necessità.
Le cooperative locali hanno accolto l’idea con prudenza: un progetto serio può essere benvenuto, ma se i costi superano i ricavi, i rischi ricadono sulle comunità più fragili. Alcuni pescatori, intervistati, hanno detto: «Se non funziona, avremo solo un’altra impresa fallimentare», «Spero che non accada come con altri progetti “green” che poi svaniscono».
Nei social si è alzato anche un coro critico: c’è chi teme che la filiera possa essere sfruttata da grandi imprese esterne, togliendo autonomia ai piccoli pescatori. Altri osservatori puntano l’attenzione sull’“etichetta verde” che rischia di nascondere costi ambientali nascosti.
In chiave tecnologica, analisti del settore pet food hanno definito l’operazione “interessante dall’innovazione”, ma “ad alto rischio se i numeri non reggono”. In ambito universitario, la componente scientifica è vista con attenzione: se il processo è replicabile e sicuro, potrebbe essere adottato anche per specie invasive marine in altri Paesi europei.
Se il paté – e altri derivati simili – incontrano il favore del mercato pet, il progetto Fil Blu potrebbe crescere e stabilizzarsi. Impianti più grandi, distribuzione allargata (non solo nei negozi pet, ma anche online), espansione verso altri mercati UE. I pescatori del Polesine, che hanno vissuto anni di crisi, potrebbero ottenere un flusso di reddito complementare. Il modello potrebbe essere esportato in altre regioni costiere d’Italia, o diventare un prototipo per l’Europa mediterranea.
L’avventura del granchio blu-paté è più di un’operazione commerciale: è un manifesto culturale e politico. La sfida che pone è la capacità di trasformare un danno ambientale in speranza produttiva, di trovare equilibrio fra natura e impresa, di far sì che chi vive sul mare abbia un orizzonte che non sia solo lotta, ma anche creatività.
Se il destino del progetto sarà segnato dal mercato, il suo valore simbolico resta: dimostra che siamo chiamati a guardare al mare non solo come vincolo, ma come laboratorio di rigenerazione. Se il granchio blu costringe a ripensare la pesca, la biodiversità, i costi dello scarto, allora possiamo sperare che nel tempo emergano tecnologie e modelli sostenibili che diano direzione, non solo scappatoie.
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