2:04 pm, 7 Ottobre 25 calendario

Una famiglia su tre limita la spesa alimentare

Di: Redazione Metrotoday
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Nel corso dell’ultimo anno, una sintesi dolorosa emerge dai dati ISTAT: pur mantenendosi pressoché stabile la spesa media delle famiglie italiane, circa un terzo dei nuclei ha dichiarato di avere dovuto ridurre la quantità o la qualità dei prodotti alimentari acquistati. Questo segnale – apparentemente paradossale, ma drammaticamente coerente – racconta una pressione sempre più intensa sui bilanci familiari, dove l’inflazione e i rincari mettono a dura prova l’accesso al cibo nella quotidianità.

Il dato ISTAT: stabilità apparente, realtà compressa

Secondo i dati più recenti diffusi da ISTAT, la spesa media mensile delle famiglie nel 2024 si attesta in valori correnti a 2.755 euro, in sostanziale continuità con i 2.738 euro registrati nel 2023. In apparenza, dunque, poco sembra cambiare tra un anno e l’altro.

Tuttavia, le cifre vanno interpretate con cautela: l’aumento nominale dell’importo speso non corrisponde a un aumento del potere d’acquisto, bensì riflette il peso dell’inflazione. Infatti, nel 2023 l’“indice armonizzato dei prezzi al consumo” registra un incremento del +5,9 %. Quando si tiene conto di questa dinamica, la spesa in termini reali si riduce del 1,5 % rispetto al 2022.

Ma c’è un ulteriore dato che colpisce: mentre la spesa complessiva resta (apparentemente) stazionaria, una quota significativa delle famiglie (il 31,1 % nel 2024, contro il 31,5 % del 2023) dichiara di aver tagliato su “cibo e bevande” — ovvero su uno dei pilastri essenziali del bilancio domestico.

Ancora più netta è la dinamica sulle bevande analcoliche: circa il 35,3 % dei nuclei segnala aver ridotto gli acquisti o scelto prodotti meno costosi.

In sostanza, nella quotidianità degli italiani qualcosa si comprime in silenzio: non le spese “di lusso”, ma quello che si mette in tavola.

Questa situazione, se da un lato può tradursi in una “illusione statistica” — ovvero quella di una muta stabilità dei consumi — dall’altro cela una trasformazione profonda delle abitudini. Le famiglie sono costrette a comprimere le scelte alimentari, sotto il peso dell’inflazione, dei rincari energetici e delle tensioni sui redditi reali.

La compressione delle quantità e della qualità

Chi taglia la spesa alimentare non lo fa — almeno non sempre — spogliando le dispense di generi essenziali. Piuttosto, si orienta verso prodotti più economici, versioni scontate, marche del “disco rosso” piuttosto che quelle classiche, e con minore attenzione alla varietà. In altri termini: si mangia, ma “male” o “poco più povero”.

Questo fenomeno è già ben documentato nel dibattito sulla povertà alimentare, intesa non solo come mancanza di calorie, ma come difficoltà crescente ad alimentarsi in modo sano, equilibrato e sufficiente. Organizzazioni come ActionAid segnalano come tale condizione non riguardi più esclusivamente le fasce deboli classiche, ma si stia estendendo a strati più ampi della popolazione, che pur non rientrando nei parametri ufficiali di povertà, si trova a fare scelte “al ribasso”.

Il Sud che paga il prezzo più alto

Una lettura disaggregata del fenomeno rivela che il peso dei tagli è molto più marcato nelle regioni del Sud. Secondo il reportage de Il Fatto Quotidiano, nelle regioni meridionali i consumi medi alimentari sono inferiori di circa 800 euro rispetto al Nord nel corso dell’anno.

Questa disparità non è una sorpresa. Il divario Nord-Sud si conferma anno dopo anno anche nella spesa media per consumi: già nel 2023, la differenza percentuale tra il Nord-ovest (più ricco) e il Sud si aggirava attorno al 35,2 %, in lieve calo rispetto al 2022 (36,9 %).

In altre parole: nelle regioni con redditi medi più bassi e con costi sociali strutturalmente elevati, la compressione sui consumi alimentari diventa un meccanismo di sopravvivenza.

Storie di famiglie e carrelli «striminziti»

Dietro le statistiche ci sono persone che ogni mattina aprono il frigorifero e fanno i conti. Ecco alcune storie che sintetizzano cosa significa dover tagliare sulla spesa:

Una famiglia nel Centro: Marco e Sara, con due figli piccoli, raccontano che ormai la quota destinata alla spesa alimentare pesa molto più del passato. Ogni settimana, calcolano carte alla mano quanti pasti “di carne o pesce” possono permettersi. Spesso la sera diventano “serate pasta” anche per variare.

La pensionata nel Sud: Maria, 76 anni, percepisce una pensione modesta. Dice che ha ridotto frutta, verdura e latticini. “Se vedo che qualcosa è caro, lo salto del tutto”, confessa, rassegnata, “ma non rinuncio al pane.”

Il giovane single urbano: Luigi abita in un quartiere periferico. Lavora con stipendio variabile. Ha detto che ormai il carrello lo compone in base alle offerte: prodotti in scadenza, marchi generici, volumi ridotti. “Non esistono quasi più i ‘piaceri’ extra”, sintetizza.

Crisi dei consumi e industria agroalimentare in allarme

Se per le famiglie si tratta di lotta quotidiana, per il sistema produttivo e distributivo è un segnale inquietante. I consumi alimentari rappresentano un motore importante dell’economia italiana, e se quel motore rallenta, l’effetto si riverbera lungo tutta la filiera.

Nei dati del primo bimestre dell’anno, la Confederazione Italiana Agricoltori (CIA) rileva una contrazione già visibile: la produzione dell’industria alimentare è diminuita dello 0,7 %. Nello stesso periodo i consumi, in quantità, sono calati dell’1 % e la spesa alimentare del 2,3 %.

Un calo nei volumi è doppiamente pericoloso: significa che non basta vendere a prezzi più alti (cosa peraltro difficile in un mercato dove la domanda è compressa). Si rischia di perdere efficienza, margini, investimenti su qualità e innovazione.

Secondo analisi recenti, da Capitalist ad esempio, la combinazione di inflazione persistente e rincari delle materie prime ha già generato una flessione significativa degli acquisti alimentari nel 2025, specialmente per i beni essenziali.

Al contempo, il quadro macroeconomico stesso contiene elementi di vulnerabilità: la stagnazione dei consumi — anche al netto dell’agricoltura — contribuisce a frenare la domanda interna e rischia di trascinare l’economia italiana in una fase di crescita debole. In molti commenti si ravvisa un rischio crescente di stagnazione: se le famiglie non spendono, il meccanismo virtuoso degli investimenti e della produzione si inceppa.

I “cibi che non puoi più permetterti”

Secondo alcune stime, oltre 2,3 milioni di famiglie in Italia non possono permettersi carne o pesce almeno una volta ogni due giorni.

Questo significa che la rinuncia non è solo una scelta, ma una condizione materiale.

In contesti urbani, si assiste anche al fenomeno della “spesa sospesa” (donazioni per famiglie bisognose nei mercati contadini) o all’aumento delle richieste di consulenza alimentare ridotta presso le associazioni.

Chi riduce la spesa alimentare spesso sperimenta sentimenti di vergogna, insicurezza e marginalizzazione. Rinunciare a invitare amici, ridurre l’offerta ai figli in occasioni conviviali, evitare piccole “trasgressioni alimentari”: le scelte non rientrano solo in un conto economico, ma in un orizzonte sociale.

Educazione alimentare e strategie di contenimento

Occorre promuovere campagne di consapevolezza sui cibi funzionali, le scelte stagionali e l’ottimizzazione della spesa (pianificazione, offerte, uso integrale, lotta agli sprechi).

Sul fronte del waste (spreco), emerge un dato controverso: nonostante le crisi, in Italia lo spreco pro capite è in aumento. Nel 2024 si stimano 80,9 grammi al giorno pro capite, con una spesa “persa” di circa 290 euro annui per famiglia.

Ridurre gli sprechi è una leva essenziale, ma serve che i consumatori abbiano margine (di ossigeno) per applicarla: non si può chiedere di “buttare meno” se si vive con bilancio compresso all’osso.

Un’altra chiave (controversa, ma teoricamente importante) è intervenire sui meccanismi fiscali: aliquote agevolate sui cibi salutari, regolazione del margine distributivo, incentivi per le catene che limitano l’aumento dei prezzi.

Tuttavia, queste misure richiedono coordinamento nazionale, monitoraggio e equilibrio politico — e rischiano tensioni con interessi consolidati nella filiera agroalimentare e distributiva.

Il pericolo più insidioso in questa fase è che la compressione alimentare diventi normale. Un “nuovo quotidiano” in cui molte famiglie non si sentiranno più in difficoltà solo se non fanno la spesa, ma perché “non possono farla come prima”.

Occorre dunque una visione integrata: non bastano interventi emergenziali, servono politiche strutturali, sostenibilità economica e culturale, e una riscoperta del valore del cibo come bene collettivo, non solo come merce.

7 Ottobre 2025
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