2:35 pm, 17 Settembre 25 calendario

Un milione di persone non vuole andarsene

Di: Redazione Metrotoday
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Gaza, ordine di evacuazione, resistenze civili e le contraddizioni di una strategia militare e umanitaria

L’ordine di evacuazione diramato dall’esercito israeliano alle popolazioni di Gaza City ha innescato una catena di reazioni: panico in alcune aree, fuga in altre, ma anche una risposta inattesa, sintetizzata da una dichiarazione lapidaria di Hamas: «Un milione di persone non vuole andarsene». Una frase che traduce non soltanto la volontà di molti civili di restare nelle proprie case, ma una rete di paure, sfide pratiche e motivazioni politiche che rendono l’idea di un’evacuazione di massa un progetto impossibile da leggere come semplice tutela della popolazione.

L’ordine di lasciare la città — accompagnato da volantini e messaggi aerei che indicano corridoi di fuga — è arrivato in un contesto segnato da mesi di bombardamenti e da una crisi umanitaria estrema. Le autorità israeliane hanno indicato aree verso sud come destinazione per la popolazione, ma la realtà sul campo mostra che il trasferimento non è solo una questione di volontà: mancano infrastrutture, cibo, acqua, assistenza sanitaria e, soprattutto, un luogo percepito come realmente più sicuro. Per molti, muoversi significherebbe abbandonare per sempre la propria casa, con il rischio di non rivederla più.

Perché non vogliono andarsene

Tre i motivi principali che spiegano la resistenza della popolazione.

La paura della perdita definitiva. Le famiglie hanno vissuto la distruzione di edifici, la perdita di documenti e beni essenziali. Spostarsi rischia di trasformare una fuga temporanea in uno sfollamento permanente: la scelta di restare è spesso l’ultima difesa di fronte all’idea di perdere tutto.

Sfiducia nelle aree di destinazione. Le zone indicate come “sicure” sono già sovraffollate, prive di servizi essenziali e di assistenza. Muoversi, per molti, significa passare da una città bombardata a campi improvvisati, senza garanzie di cibo, acqua e cure.

Motivazioni politiche e di controllo. In alcuni casi la scelta di rimanere è alimentata da messaggi politici, che descrivono l’evacuazione come una resa o un esodo forzato. Restare diventa, per alcuni, un atto di resistenza, per altri una scelta obbligata di fronte a corridoi insicuri e a prospettive di marginalizzazione permanente.

Una crisi logistica senza precedenti

La guerra urbana ha reso l’apertura di corridoi di evacuazione un’operazione fragile e incerta. Le condizioni che dovrebbero garantire la sicurezza — percorsi liberi da bombardamenti, punti di raccolta organizzati, trasporti e accoglienza — vengono costantemente violate. I convogli umanitari arrivano a singhiozzo, mentre una popolazione stremata deve scegliere tra il rischio di un attacco lungo la via di fuga e quello di restare intrappolata tra le macerie.

Le testimonianze raccontano di file interminabili per il pane, di feriti senza cure, di pazienti oncologici bloccati negli ospedali privi di energia e medicinali. L’evacuazione, in queste condizioni, diventa essa stessa un pericolo mortale.

La narrazione politica

Il conflitto non si combatte solo sul terreno, ma anche nella comunicazione. Da una parte si accusa Hamas di scoraggiare o impedire le evacuazioni, dall’altra si denuncia l’imposizione di un trasferimento forzato che priva la popolazione della propria casa e del diritto di restarvi. La frase «un milione di persone non vuole andarsene» diventa così uno slogan, ma anche la rappresentazione di una realtà concreta: la maggioranza non ha la possibilità materiale né la volontà di abbandonare la città.

In questo intreccio, i media raccontano scene di bombardamenti, analisi geopolitiche e drammi individuali, mentre le voci locali descrivono la sofferenza quotidiana, fatta di scelte impossibili.

Il peso delle memorie passate

La riluttanza a fuggire si spiega anche con le esperienze accumulate negli anni. Durante precedenti conflitti, chi era scappato temporaneamente ha spesso trovato la propria casa distrutta o inaccessibile. Le promesse di ritorno raramente si sono realizzate, e la memoria collettiva di ricostruzioni mancate alimenta la sfiducia. Restare diventa allora un modo per difendere un legame con la propria identità, con il quartiere, con la storia familiare.

Storie

Un medico racconta di non aver lasciato il suo quartiere per continuare a curare pazienti incapaci di muoversi. Una madre con due figli malati descrive lo spostamento come un rischio insostenibile: mancanza di farmaci, viaggi estenuanti e l’incertezza di trovare rifugio altrove. Un anziano ricorda la fuga di anni fa verso sud, che si trasformò in un’esistenza di marginalità da cui non tornò mai più.

Sono voci che mostrano come le decisioni personali non obbediscano a logiche strategiche, ma a calcoli di sopravvivenza.

 

Il ruolo della comunità internazionale

Gli organismi internazionali denunciano le condizioni umanitarie e chiedono corridoi sicuri e ripetuti. La diplomazia, però, appare lenta e subordinata alle logiche politiche regionali e alle alleanze militari. La contraddizione resta evidente: colpire obiettivi militari in aree densamente popolate significa esporre i civili a un rischio che difficilmente può essere considerato “collaterale”.

Scenari a medio termine

Le operazioni militari continueranno, con inevitabili ondate di distruzione e nuovi sfollamenti. A medio termine, la riconfigurazione demografica e l’impossibilità di un ritorno alla normalità rischiano di consolidare una crisi permanente. Il rifiuto di un milione di persone di abbandonare la città rappresenta un fattore critico: la prosecuzione delle ostilità in aree così densamente abitate renderà altissimo il prezzo umano del conflitto.

Oltre il conflitto, la necessità di risposte umane

La frase «un milione di persone non vuole andarsene» può sembrare propaganda politica, ma nella sua brutalità fotografa una condizione reale. Ogni ordine di evacuazione, se privo di soluzioni concrete per la sopravvivenza, rimane incompiuto e potenzialmente devastante. La vera sfida non è spostare corpi da una parte all’altra di una striscia di terra, ma garantire loro un futuro vivibile.

Senza corridoi affidabili, senza cure, senza la garanzia che lo spostamento non diventi cancellazione di un’esistenza, nessuna evacuazione può essere definita umanitaria.

17 Settembre 2025
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