1:09 pm, 11 Ottobre 25 calendario

La sinistra più fondamentalista di Hamas”: lo schiaffo di Meloni

Di: Redazione Metrotoday
condividi

È ormai chiaro che in questa campagna elettorale regionale in Toscana, la premier Giorgia Meloni ha deciso di far leva non soltanto sul programma o sui candidati, ma sull’asprezza di un attacco frontale al “nemico interno”. E quel “nemico” è la sinistra italiana, che ieri sera, da un palco di piazza San Lorenzo a Firenze, è stata definita — senza mediazioni — «più fondamentalista di Hamas»: un’affermazione che rilancia lo scontro culturale e politico, ma che al contempo scuote equilibri, alleanze, dinamiche istituzionali e relazioni internazionali.

Tra guerra a Gaza, proteste e crisi dell’autorità

Il 7 ottobre 2023 segna una cesura, ancora oggi centrale nell’agenda internazionale: l’attacco di Hamas contro Israele — un’azione che causò circa 1.200 morti tra i civili israeliani — ha fatto esplodere, da quel momento, una escalation militare nella Striscia di Gaza che ha mietuto decine di migliaia di vittime, in gran parte civili.

Da allora, la guerra si è protratta in una condizione di stallo militare, emergenza umanitaria e forte polarizzazione internazionale: più che una “guerra classica” è diventata terreno simbolico, mediale e politico.

In Italia, la reazione è conflittuale. Da una parte, enormi mobilitazioni popolari pro-Palestina: manifestazioni che hanno attraversato le principali città, con picchi di partecipazione e momenti di tensione — come la grande manifestazione del 4 ottobre a Roma, dove secondo stime della polizia s’è registrata una convergenza tra manifestanti, studenti, famiglie e centri sociali.

Dall’altra, una pressione crescente sulle istituzioni affinché si assumessero posizioni più nette nei confronti di Israele e più solidali verso i civili palestinesi — sia sul fronte diplomatico sia su quello delle forniture di armi, del sostegno umanitario e del riconoscimento dello Stato palestinese.

Il governo Meloni, spesso percepito come vicino a posizioni filoisraeliane, ha cercato di camminare su due fronti: difendere il diritto di Israele a difendersi, ma al contempo condannare la cosiddetta “disproporzione” delle operazioni a Gaza, sostenere corridoi umanitari e avanzare una riconciliazione mediatica.

In parallelo, il governo ha annunciato che avrebbe presentato in Parlamento una mozione per il riconoscimento della Palestina, con condizioni: la liberazione degli ostaggi israeliani e l’esclusione di Hamas da qualsiasi ruolo di governo palestinese.

Ma le proteste, le critiche e le accuse contro il governo non si sono fatte attendere. Le organizzazioni sindacali hanno promosso scioperi generali per Gaza e mobilitazioni diffuse, denunciando la complicità del governo italiano nei crimini attribuiti all’offensiva israeliana.

Parallelamente, sono emerse denunce contro il Primo Ministro e altri esponenti dell’esecutivo per presunta complicità in “genocidio” davanti alla Corte Penale Internazionale (CPI).

Meloni ha reagito definendo tali accuse «incredibili», «senza precedenti» e una forma di aggressione politica; ha poi sottolineato che l’Italia — dopo il 7 ottobre 2023 — non ha autorizzato nuove esportazioni belliche verso Israele.

In questo contesto internazionale-bollente, l’attacco retorico della premier contro la sinistra italiana si inserisce come un’equazione aggressiva: se in politica estera si combattono i nemici oltre i confini, in politica interna si cercano i nemici dentro. Meloni ha scelto di attribuire alla sinistra italiana una carica provocatoria, definendola «più fondamentalista di Hamas». L’attacco è arrivato al culmine di un discorso in cui la premier ha anche affermato che «la sinistra non è riuscita a votare la mozione [sul piano Trump], poi ha detto di sì anche Hamas. Quindi la sinistra italiana è più fondamentalista, più estremista degli estremisti».

Ha inserito poi un affondo contro la CGIL e i leader sindacali, in particolare Landini, accusandoli di convocare uno sciopero generale per Gaza in accordo con Hamas: «Quando Landini convoca lo sciopero generale della CGIL per la pace a Gaza, cosa succede? Che Hamas dice: “Fermi tutti, Landini mi ha convocato lo sciopero generale, ragazzi bisogna rilasciare gli ostaggi”? Purtroppo no».

E ha aggiunto: «Hamas non firma la pace per Landini, né per Albanese che insulta la Segre, né per Greta con la Flotilla. C’è una persona da ringraziare: Trump».

Nel contesto del comizio, Meloni ha costruito un’identificazione simbologica: la sinistra italiana come un “campo largo” che lei rifiuta, definendolo un «Leoncavallo largo», «un enorme centro sociale».

Questo attacco mira a toccare nervi sensibili: la sinistra, il movimento sindacale, la solidarietà internazionale. Vuole spostare l’azione politica sul terreno dell’identità, delle alleanze e della “purezza ideologica”, piuttosto che sui contenuti concreti.

Vero è che Meloni non è nuova a queste sortite: già in passato ha usato metafore forti, polarizzanti, che tendono a cristallizzare la contrapposizione fra “noi” e “loro”. La novità questa volta è la centralità dell’attacco — non più come corollario, ma come fulcro della retorica politica in campagna elettorale.

Le reazioni politiche

Dal fronte delle opposizioni la reazione è stata immediata e dura. Diversi esponenti di partiti e sindacati hanno definito le parole della premier «inaccettabili», «irresponsabili» e una manifestazione di odio politico.

Elly Schlein, leader del Partito Democratico, ha reagito chiedendo che Meloni chiarisca se intende assumersi «la responsabilità morale delle sue frasi», e ricordando che attacchi di tal natura rivelano una visione “nemica” della democrazia.

I sindacati, in particolare la CGIL, si sono difesi: Landini ha dichiarato che si tratta di un’offesa all’autonomia sindacale e al diritto alla mobilitazione, sottolineando che lo sciopero per Gaza è stato convocato per ragioni umanitarie, non per fare politicamente il favore di gruppi esterni.

Alcuni intellettuali e giornalisti progressisti hanno avvertito che questa retorica segna una discesa nel confronto politico: non più argomentazioni, ma graffi identitari.

Anche settori moderati e centristi si sono allarmati: definire la sinistra “più fondamentalista di Hamas” non è soltanto un’espressione estrema, è una “mossa di guerra” simbolica contro chi non è allineato.

Nel campo del centrodestra l’approvazione è plebiscitaria. Il “pubblico amico” del comizio ha applaudito a ogni affondo, scandendo slogan e cori di sostegno. Matteo Salvini, Maurizio Lupi, Antonio Tajani — presenti sul palco — hanno rilanciato il tema: “la sinistra non ha più argomenti seri”, “piuttosto che unirsi meglio combattere”.

Tajani ha colto l’occasione per richiamare i “politici centristi” a schierarsi, denunciando che “dall’altra parte è rimasta solo la sinistra”.

Salvini, con piglio quasi teatrale, ha ricordato che «la pace non arriva né per Landini, né per Albanese, né per Greta con la Flotilla», e che «c’è una persona da ringraziare: Trump». La strategia è chiara: trasformare una questione internazionale in una battaglia interna.

Moderati, stampa e opinione pubblica

In ambienti più moderati la dichiarazione ha suscitato perplessità: se è doveroso il contrasto politico, è altrettanto essenziale preservare un livello civile del dibattito, evitare che ogni avversario diventi un nemico delegittimato. Qualche editorialista ha posto l’accento sul pericolo dell’ipertrofia retorica che minaccia la convivenza democratica.

Nei social, l’attacco è diventato virale: da un lato gli ultras del centrodestra lo rilanciano come prova di coraggio; dall’altro, i sostenitori della sinistra lo denunciano come insulto indegno verso chi si batte per cause civili e diritti umani.

Tra gli osservatori internazionali è stato colto il segnale: il passaggio da una politica estera complessa a un uso della guerra come leva di scontro interno è visto come un mutamento nel linguaggio politico italiano.

Il rischio della radicalizzazione del discorso

C’è però un limite: girare attacchi di quel peso verso una forza democratica autorizza, metaforicamente, chiunque a considerare ogni dissenso come un tradimento. Il rischio è che si getti benzina sulla delegittimazione dell’avversario, alimentando rancori, estremismi retorici, polarizzazione sociale. Il dibattito pubblico potrebbe degenerare in scontri simbolici senza contraddittorio reale.

In più, tale linguaggio può sortire l’effetto inverso: invece di consolidare, può allontanare moderati, indecisi, persone che fuggono dagli eccessi verbali. Se la politica rischia di essere percepita come un’arena di scontri personali, chi cerca soluzioni pragmatiche o ragionevoli potrebbe alienarsi.

L’uso retorico della guerra civile

Non è la prima volta che leader politici, in Italia e all’estero, usano la guerra o i conflitti lontani per alimentare la contesa interna. Dalla Guerra Fredda in poi, la retorica del “noi contro i deviazionisti” è stata spesso evocata per delegittimare l’avversario politico, attribuendogli affinità con “nemici interiori”.

In Italia, specialmente nel secondo dopoguerra, l’unità nazionale, il fronte anti-comunista, la strategia della tensione, hanno spesso intrecciato guerre esterne e conflitti interni. In molte campagne elettorali si sono chiamate in causa le guerre mondiali, la Resistenza, l’antifascismo, in chiavi simboliche forti.

Ciò che cambia oggi è la teatralità: l’uso di un linguaggio bellico in un contesto elettorale locale appare come la normalizzazione di un conflitto simbolico: “chi non sta con me è con il nemico”. E la guerra di Gaza, così drammatica e attuale, fornisce un terreno “autentico” su cui piantare questa retorica.

In molte democrazie contemporanee, leader populisti o nazionalisti hanno utilizzato linguaggi aggressivi contro l’opposizione: etichettandola come “traditrice”, “nemica interna”, “cancro del sistema”. Spesso queste retoriche sono accompagnate da attacchi mediatici, delegittimazioni istituzionali, attacchi al pluralismo.

Questa strategia ha funzionato – almeno in parte – laddove l’opposizione appare debole o divisa. Ma ha anche provocato fenomeni di contraccolpo: risveglio civico, mobilitazioni spontanee, e crisi di legittimità. In Italia, la “democrazia del conflitto” ha radici profonde, e l’equilibrio tra aggressione retorica e vincoli istituzionali è sempre delicato.

Le sfide locali

Non possiamo dimenticare che questo comizio è inserito in una campagna regionale: la Toscana è da decenni roccaforte di sinistra e centrosinistra. La strategia di Meloni punta a rompere quel monopolio ideologico: “vincere là dove si credeva invincibile”. In questo senso, la provocazione contro la sinistra è funzionale: cerca di sottrarre il simbolo di “roccaforte rossa” per rilanciare il progetto del centrodestra.

La scelta di Firenze come palcoscenico non è casuale: è capitale culturale, simbolo della sinistra storica e progressista. Attaccare da lì significa puntare il dito su presunte ipocrisie locali, su connivenze e su nostalgie “antiche”.

L’attacco retorico di Meloni contro la sinistra — definita «più fondamentalista di Hamas» — non è solo la battuta estrema di un comizio elettorale: è un punto di svolta simbolico. È il tentativo di trasformare un conflitto estero in arma di lotta politica interna. Questo gesto non è privo di rischi: polarizzazione, delegittimazione del dissenso, perdita di spazio moderato, rimprovero internazionale. Ma è coerente con una strategia che mira a plasmare una narrazione culturale: amici contro nemici, “noi contro loro”, verità contro ipocrisia.

11 Ottobre 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA