La crisi silenziosa del Pd: quando Francesca Albanese diventa spina nel fianco

Nel panorama già tumultuoso della sinistra italiana, sta emergendo un conflitto che potrebbe segnare un punto di svolta. Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i territori palestinesi, è diventata in poche settimane una figura mediatica centrale nella mobilitazione per Gaza. Ma proprio questa centralità ha innescato una fronda interna al Partito Democratico, con esponenti di peso che criticano il suo modo di fare, i toni, le parole, il protagonismo. È un episodio che riflette tensioni profonde: tra identità e responsabilità politica, tra simbolo e istituzione, tra piazza e partito.
Il caso esplode all’interno del Pd
Negli ultimi giorni, alcuni dirigenti dem hanno aperto un confronto pubblico su Albanese. Critiche nette sono arrivate da Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, che ha parlato di “narcisismo, poca politica e molta arroganza”, accusando il partito di rincorrere il movimento invece di guidare la linea politica interna. Non è una semplice sfumatura: è un attacco alla modalità stessa della militanza, al culto dell’immagine, alla distanza — percepita — tra i social e la macchina del partito.
Filippo Sensi, senatore del Pd, ha aggiunto un argomento più concreto: “Non penso sia l’ora dei protagonismi individuali”, affermando che l’urgenza oggi sta nel sostenere il piano di pace e il cessate il fuoco, non nel creare divisioni intorno a una singola figura. La critica investe anche la gestione pubblica di Albanese: alcune sue uscite, come quella alla trasmissione In Onda in cui ha lasciato lo studio dopo contrasti sul termine “genocidio”, e il commento su Liliana Segre — definita “non lucida” da parte dell’Onu — hanno alimentato le tensioni interne.
Un altro fronte è la dichiarazione di Elisabetta Gualmini, europarlamentare: secondo lei Albanese è “una figura molto polarizzante e divisiva” e ha criticato il conferimento della cittadinanza onoraria in alcune città, sostenendo che l’elezione di simboli forti può logorare il compito primario di un’amministrazione: unire la comunità, non dividerla.
L’episodio che ha acceso ulteriormente le polemiche è accaduto a Reggio Emilia: durante un evento con il sindaco che citava il problema degli ostaggi, Albanese avrebbe reagito mettendosi le mani sul volto in segno di tensione, e poi avrebbe detto al primo cittadino: “Ti perdono ma non ripeterlo più”. Una scena che per Gualmini è “penosa e inaccettabile”, emblema di una politica che ha perso misura e tatto.
Così, dentro il Pd, si è formata una linea di dissenso che non riguarda tanto le opinioni su Gaza — su cui, affermano quasi tutti, c’è unanimità nella condanna delle atrocità — quanto il modo di incarnare quella protesta, di rappresentarla, di guidarla. Il punto centrale è: può un partito con responsabilità di governo tollerare un leader “esterno” che funzioni da megafono della piazza?
Il profilo simbolico di Albanese
Quel che rende il caso interessante non è la singola parola o lo slogan sbagliato: è che Albanese — senza essere candidata, senza avere un mandato interno al Pd — è diventata una figura visibile e in alcuni casi addirittura “attesa”. Le piazze la applaudono, alcune amministrazioni le conferiscono riconoscimenti simbolici, i media la inseguono per interviste e dichiarazioni. Il suo volto, più del volto dei leader politici tradizionali, è diventato un punto di riferimento per molti attivisti pro-Palestina.
In questo senso, il conflitto scoppiato nel Pd non è soltanto interno: è l’emergere di una dicotomia più ampia tra chi crede che una forza politica debba fare sintesi, mediazione, tessitura istituzionale, e chi invece individua nel gesto, nella posizione estrema e simbolica, la forma più efficace di testimonianza. Albanese non ha partito alle spalle (almeno non formalmente) ma ha un capitale simbolico forte. Ed è proprio questa forza che crea tensione.
Alcuni osservatori sottolineano che la sinistra italiana, dopo anni di crisi di identità e leadership, fatica a trovare nuove figure riconosciute: così, il vuoto viene “occupato” da chi agisce più sul piano dell’immagine che della struttura. Albanese è diventata “sinistra della sinistra”, un riferimento esterno che scuote le gerarchie, innesca discussioni, spinge la mobilitazione civica, ma solleva anche problemi di legittimità interna.
Un altro elemento che alimenta il dibattito è la rapidità con cui la figura di Albanese si è imposta. In molti, dentro il Pd, avvertono il rischio che una classe dirigente già fragile venga “spiazzata” da un’icona che agisce per istinto mediatico. È come se il partito fosse messo alle strette: adattarsi o contrastare.
Il dissenso verso Albanese non nasce solo da motivi personali o ideologici, ma anche da una strategia politica più pragmatica. Se un partito aspira al governo, si dice dentro il Pd, non può giocare tutto sull’onda della mobilitazione emotiva e “popolare”. Delegazioni sindacali, governi locali, relazioni internazionali: tutte queste sfide richiedono pazienza, equilibrio e negoziazione, non slogan urlati o gesti plateali.
C’è poi un’altra preoccupazione: il rischio che la radicalizzazione del linguaggio — “genocidio”, “pulizia etnica”, riferimenti religiosi o morali forti — renda meno credibili le interlocuzioni diplomatiche, isolandosi nei confini del simbolico. In teatri come il Medio Oriente, la diplomazia ha bisogno di interlocutori concreti, posizioni negoziali, contatti che non si fondino solo sulla denuncia.
Inoltre, le amministrazioni locali che hanno concesso cittadinanze onorarie a Albanese rischiano di uscire spaccate: nel tempo, il simbolo può diventare punto di frizione. Gualmini, parlando della città di Bologna, afferma che i sindaci dovrebbero essere “unificatori”, non agenti di divisione. È un’istanza che si dirige non tanto contro Albanese quanto contro i rischi che la sua figura impone alle amministrazioni che la celebrano.
Infine, non è trascurabile il fatto che la sinistra italiana si trova in una fase di transizione delicata: non ha un leader emergente forte, è frammentata, spesso divisa su linee identitarie o tattiche. In questo vuoto, un volto che racconta una causa forte e che catalizza le emozioni può diventare, per molti, una tentazione irresistibile. Ma proprio per questo, alcuni nel Pd la considerano un “fuoco amico”.
Questo episodio non riguarda solo Francesca Albanese e il Pd: è un caso paradigmatico per la sinistra italiana in generale. In un’epoca in cui i media, i social, l’attenzione pubblica, la protesta globale hanno un ruolo centrale, i partiti si trovano a dover gestire l’equilibrio fra rappresentanza simbolica e responsabilità concreta.
Cosa significa “essere radicali” quando sei anche responsabile amministrativamente? Come conciliare il linguaggio forte della testimonianza con il pragmatismo diplomatistico della politica internazionale? È l’eterno dilemma della sinistra, ma oggi con strumenti più potenti — e più esposti —.
In particolare, il caso dimostra che il “volto forte” è arma a doppio taglio: può galvanizzare la base, ma può anche dividere chi opera nelle istituzioni. Può richiamare attenzioni mediatiche, ma attirare critiche interne. Può ispirare movimenti, ma generare attriti di rappresentanza.
Infine, non è irrilevante che il dibattito sia esploso proprio nell’ambito della questione palestinese, uno dei temi più divisivi nella politica internazionale. In Italia, dove il consenso sull’aiuto umanitario tende a essere ampio, ma dove le linee diplomatiche sono complesse, un volto radicale come quello di Albanese tocca nervi scoperti: sul linguaggio, sul simbolo, sul potere di mediazione.
Francesca Albanese è diventata, suo malgrado, una spina nel fianco del Pd. Non tanto per le sue posizioni sulla Palestina — che molti condividono — quanto per il modo con cui ha incarnato la mobilitazione: con simboli, scontri, toni forti, presenza costante. Le sue stesse parole, interpretate da chi sente la pressione di una responsabilità politica e istituzionale, vengono percepite come una sfida.
Il Pd si trova dinanzi a un bivio: le sue correnti possono scegliere di inglobare il fenomeno, governarlo, contenerlo; oppure di respingerlo, limitarlo e infine neutralizzarlo. Tutto dipende dall’esito del dialogo interno — o della sua mancanza.
Se la sinistra italiana non ripristina un patto fra chi agisce nelle piazze e chi agisce nelle istituzioni, rischia di dividersi non per contenuti, ma per stili. E in quel crinale — tra gesto e governo, tra simbolo e responsabilità — si sta giocando, oggi, una partita decisiva per il futuro del centrosinistra.
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