Il caso Unabomber resta avvolto nel silenzio: il Dna non consegna il colpevole

È rimasto senza risposta il più recente tentativo di dare un nome all’“Unabomber” italiano: la perizia disposta dalla Procura di Trieste su una serie di reperti storici non ha evidenziato alcuna corrispondenza tra le tracce genetiche rilevate e i profili dei — undici — indagati attuali. Il risultato smorza le speranze di chi attendeva una svolta definitiva e riapre per l’ennesima volta il dibattito sul mistero più enigmatico della cronaca recente del Nord-Est.
Un dossier da duemila pagine, esito negativo
Il lavoro affidato a due esperti — il genetista forense Giampietro Lago (ex comandante del RIS di Parma) e l’antropologa molecolare Elena Pilli — ha prodotto un dossier “corposissimo” di circa duemila pagine, costituente la base per la prossima udienza di incidente probatorio fissata per il 20 ottobre. L’obiettivo era chiaro: esaminare decine di reperti, alcuni conservati per anni, alla ricerca di un profilo genetico compatibile con chi, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, mise a punto una strategia di terrore con ordigni nascosti in oggetti quotidiani.
Ma l’esito è stato una doccia fredda per gli inquirenti: nessuno dei profili genetici estratti corrisponde a quelli dei 11 indagati né — secondo quanto riferito — a soggetti noti ai database di riferimento. Le tracce genetiche sembrano dunque appartenere a ignoti, un “bombarolo fantasma” che continua a sfuggire anche agli strumenti più sofisticati.
Fra gli indagati figura anche l’ingegnere Elvo Zornitta, già al centro delle indagini nei primi anni Duemila, prosciolto in precedenza. Il suo legale ha commentato che questo esito «era largamente prevedibile» e che ora la strada verso l’archiviazione appare sempre più concreta.
Tra le parti civili e le famiglie delle vittime, invece, c’è delusione: la speranza era che finalmente, dopo decenni, emergesse un volto dietro il soprannome. Un nuovo stop, invece, riporta tutto allo stato di attesa e incertezza.
Unabomber: il terrore del Nord‐Est
Per comprendere il peso simbolico di questa battuta d’arresto, è utile tornare alle origini del caso. Il soprannome “Unabomber” – mutuato dal celebre analogon americano – fu adottato dalla stampa italiana per indicare un misterioso attentatore che tra il 1993 e il 2006 colpì con ordigni artigianali le province di Pordenone, Treviso, Udine, Venezia e dintorni.
Le modalità del killer erano spietate nella banalità del mezzo: bombe inserite dentro tubetti, penne, contenitori alimentari, oggetti d’uso quotidiano. L’obiettivo non era solo ferire, ma seminare paura diffusa, insicurezza e una sensazione di vulnerabilità in chiunque potesse raccogliere o avvicinarsi a un oggetto innocuo. Fra i casi più tragici, il ferimento grave di una bambina di nove anni sul greto del fiume Piave, che raccolse un evidenziatore-bomba.
Non ci furono mai morti accertati, ma numerose vittime riportarono menomazioni gravi: amputazioni, lesioni, cicatrici indelebili. L’assenza di una vittima letale ha complicato anche la mancanza di un movente chiaro, rendendo ancora più ardua l’identificazione.
Nel 2004 venne iscritto come indagato Zornitta, su spinta di sospetti incrociati e competenze tecniche possedute. Ma già allora si manifestarono incongruenze: alibi ritenuti validi, prove controverse, manipolazioni contestate. Nel 2009, la sua posizione venne archiviata.
Col passare degli anni, il caso entrò in letargo: senza novità, senza indizi diretti, senza nuove piste affidabili. Nel 2022, le vittime e alcuni giornalisti chiesero alla Procura di Trieste di riaprire l’inchiesta, puntando sulle nuove tecniche di biologia forense per riesaminare i reperti.
Le tecniche di biologia forense e le speranze rinnovate
Negli ultimi anni, la biologia molecolare forense ha compiuto passi avanti che molti speravano potessero essere decisivi anche nel “cold case” di Unabomber. Tecniche sempre più sensibili consentono di rilevare tracce minime di DNA (il cosiddetto touch DNA) anche in oggetti manipolati o contaminati, e di separare profili sovrapposti.
Nel maggio 2024, alcuni quotidiani locali diffusero un’anticipazione clamorosa: da reperti antichi sarebbe stato estratto un profilo genetico riconducibile a un solo soggetto, e si ipotizzava che quell’analisi potesse fungere da svolta. L’avvocato di Zornitta contestò immediatamente la notizia, sostenendo che tecniche simili fossero già state adottate e che non vi fossero dati nuovi sufficienti.
Queste speranze di rinvenire un profilo utilizzabile hanno motivato la perizia attuale, che ha invece deluso le aspettative. Le tracce genetiche risultano incompatibili con i profili conosciuti: ciò significa che l’Unabomber potrebbe provenire da un soggetto non presente nelle banche dati esistenti — o che non sia mai stato sottoposto a un prelievo genetico.
Questo tipo di “non-corrispondenza” non è inedito nella cronaca delle grandi indagini: reperti degradati, contaminazioni, deterioramento del DNA, presenza di più profili sovrapposti, errori di catalogazione possono rendere l’analisi genetica inconcludente anche quando l’autore è ipotizzabile.
Archiviazione o nuovo ciclo?
Con l’esito negativo della perizia, la Procura potrebbe muoversi verso una nuova archiviazione del fascicolo. Il vincolo è forte: senza elementi nuovi che colleghino con certezza un nome al DNA, la legge non consente di proseguire un processo “solo per sospetto”.
Tuttavia, le vittime e le parti civili che hanno collaborato alla riapertura dell’inchiesta potrebbero chiedere che si mantenga aperta la porta delle indagini, con altre perizie, campagne di ricerca di DNA in archivi, controllo su profili finora “ignoti”.
Un’archiviazione definitiva tuttavia cancellerebbe del tutto, almeno per quanto riguarda questo filone, la speranza di un’identità riconosciuta.
L’udienza del 20 ottobre sarà uno snodo: verrà verificata la congruenza della perizia, l’eventuale ammissione di controperizie, l’accesso alla documentazione da parte delle difese. In quella sede potrebbe emergere anche la volontà della Procura di chiudere formalmente il fascicolo.
Che l’Unabomber non sia mai stato catturato non è solo un fallimento investigativo: è una ferita aperta per chi ha perso una mano, un dito, la serenità. Queste persone restano testimoni viventi di una violenza selettiva, estratta dalla vita quotidiana e dalla fiducia ingenua nell’oggetto ordinario.
Il fatto che, dopo decenni, non si abbia un nome — nonostante perizie sofisticate e un dossier millesimale — amplifica il senso di impotenza della giustizia e interroga la fiducia di chi crede che la scienza forense possa sempre “dire la verità”.
Il caso ha lasciato una traccia profonda nella memoria collettiva del Nord-Est, dove il rumore dei botti in posti casuali si mescolava all’incertezza di chi poteva essere il prossimo. Anche serie televisive, podcast, inchieste giornalistiche, libri hanno tenuto vivo il quesito: chi era quel bombardiere seriale senza viso?
Non bisogna dimenticare che l’analisi del DNA, per quanto potente, ha limiti: degradazione nel tempo, tracce troppo minute, contaminazioni ambientali, presenza di più profili mischiati, inefficienza nelle banche dati. Anche in scenari teorici favorevoli, molti reperti rimangono “non interpretabili”.
La “mole” del dossier — duemila pagine — testimonia la complessità del confronto: non è un semplice test binario, ma un lavoro integrato di ricostruzione, probabilità, esclusioni. Il fatto che si siano inclusi anche profili di persone potenzialmente contaminanti (investigatori, tecnici) dimostra l’attenzione al rigore metodologico.
Ma la delusione attuale segnala un punto: non sempre la scienza può “fornire un volto”. E un’indagine può restare sospesa non per mancanza di impegno, ma per ostacoli intrinseci al materiale su cui opera.
L’ennesima perizia negativa sulla questione del Dna nel caso Unabomber restituisce un dato doloroso: non tutto può essere racchiuso in un profilo genetico e non tutte le storie hanno chiusure certe. Dopo anni di attese, indagini, inversi, la speranza di una verità definitiva rischia di spegnersi.
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