Guerriglia urbana a Roma dopo il corteo pro-Palestina

La Capitale italiana vive oggi una giornata di forte tensione e contraddizioni. Da una parte, un corteo nazionale a sostegno della causa palestinese, definito dagli organizzatori come una “marea umana” che avrebbe richiamato centinaia di migliaia di persone. Dall’altra, a manifestazione ormai conclusa, l’escalation della violenza nelle strade centrali: scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, idranti, lacrimogeni, cassonetti ribaltati, una “auto civetta” in fiamme, fermati e feriti.
«Siamo un milione», ma la contesa si fa strada
Il corteo pro-Palestina era stato annunciato con enfasi: slogan di pace, solidarietà e opposizione all’aggressione nella Striscia di Gaza. Il percorso – lungo circa 4 chilometri attraverso strade centrali del centro storico – aveva l’obiettivo di rendere visibile una protesta di carattere continentale e mobilitante. Secondo gli organizzatori, il numero dei partecipanti avrebbe oscillato tra le centinaia di migliaia e il milione. I media parlano di “migliaia in marcia” ma anche di “centinaia di migliaia” effettivamente presenti. Alcuni cronisti segnalano che, al momento della chiusura ufficiale del corteo, c’era ancora gente in attesa di partire lungo i viali che dovevano ospitare la manifestazione. Il percorso negli ultimi momenti non è riuscito a contenerli tutti.
Fino a quando la manifestazione è rimasta sotto controllo, le forze dell’ordine avevano assicurato una significativa presenza, anche con reparti a difesa dei palazzi istituzionali e dei monumenti storici. È stato segnalato che alcuni “incappucciati” (cioè manifestanti con volto coperto) si sarebbero staccati dal corteo centrale – gruppi di una ventina o qualche decina di unità, secondo le cronache locali – dirigendosi verso Santa Maria Maggiore e via Labicana. In queste zone sono avvenuti i primi momenti di tensione, scambi di oggetti nei confronti della polizia, e danneggiamenti a vetrine. Una vetrina di un punto vendita su via Labicana è stata spaccata.
A Santa Maria Maggiore un gruppo di circa cento persone è stato bloccato dalle forze di polizia, nonostante i tentativi di forzare il passaggio. In quel frangente, è stato necessario l’uso di idranti, ma non si sono registrate cariche pesanti: la polizia ha scelto una strategia di contenimento.
Nel bilancio provvisorio si contano almeno 11 fermi nel corso degli scontri, secondo fonti della questura. Tra questi, cinque minorenni – provenienti da altre città (alcune fonti indicano Pisa) – sono stati fermati nelle vicinanze del parco di Colle Oppio: avevano con sé caschi, bottiglie in vetro, bombolette spray e fumogeni.
In una fase avanzata degli scontri, è scoppiato un incendio nei pressi di un’auto civetta (cioè un veicolo identificato con funzione d’indagine): è divampata tra le vie centrali, con il rogo che ha attirato l’attenzione dei media. Non è escluso che la vettura fosse usata in qualche funzione investigativa o di controllo in borghese.
Gli agenti, schierati con blindati, scudi, caschi e manganelli antisommossa, hanno risposto con la dispersione tramite idranti e l’uso di lacrimogeni. Alcune linee di container urbani sono state ribaltate; bottiglie, petardi e oggetti contundenti sono stati lanciati verso gli agenti, che hanno reagito in più punti. Le zone più critiche si sono concentrate attorno al Colosseo e via Labicana, con il blocco di alcune arterie limitrofe.
Intervistati, alcuni manifestanti “di base” dicono di essere arrivati da decine di città italiane, con pullman e treni, spinti da motivazioni umanitarie e da indignazione per le immagini che arrivano dalla guerra tra Israele e Gaza. Ma altri – in modo meno ufficiale – fanno parte di gruppi antagonisti abituati alle proteste urbane violente, che hanno usato la copertura del corteo per infiltrarsi nella folla e innescare conflitti con le forze dell’ordine.
Dietro le maschere
Roma, da decenni, convive con manifestazioni di forte blasone simbolico e con derive violente. Dai cortei radicali degli anni ’70-’80, ai movimenti studenteschi e sindacali, agli “indignados” del 2011, fino alle recenti proteste contro i dispositivi sanitari pandemici, la città è diventata spesso teatro di collisioni tra la piazza e l’autorità.
Un precedente recente è la protesta anti-Green Pass del 2021: migliaia in piazza, scontri, idranti, attacchi alle sedi sindacali e polemiche sull’uso della forza. Anche in quell’occasione fu duramente contestato il confine tra diritto di manifestare e ordine pubblico.
Un secondo momento è rappresentato dalle manifestazioni del Popolo Viola del 2009-2010, o quelle contro la globalizzazione che hanno attraversato Roma (e altre città europee) nei primi anni 2000. In alcuni casi, gruppi autonomi, black block e anarchici hanno inserito violenza nei cortei pacifici, generando danni e scontri. Nel tempo le questure e le prefetture hanno affinato protocolli di sicurezza, ma la sfida resta complessa: garantire il diritto di manifestare, proteggere monumenti, linee di comunicazione, edifici pubblici, e limitare infiltrazioni violente.
Oggi, nel contesto internazionale, le proteste legate al conflitto israelo-palestinese hanno portato in piazza non solo attivisti storici, ma nuovi soggetti digitalizzati, giovani sensibilizzati sui social, movimenti civili di solidarietà. Questo miscuglio rende più difficile distinguere la parte nonviolenta da quella disposta a sfociare nel conflitto urbano.
Nel caso odierno, la strategia degli antagonisti è stata chiara: attendere la fase finale del corteo, quando parte della folla è sfiancata e in dispersione, e colpire nei punti più vulnerabili, dove le forze dell’ordine tendono a ritirarsi per presidiare snodi principali. Secondo osservatori, ciò spiega la scelta di zone come via Labicana o Santa Maria Maggiore, un tempo meno presidiate e logisticamente più isolate.
Il timore che emerge è quello di una radicalizzazione simbolica: piazze che non sono solo luoghi di protesta, ma palcoscenico della guerriglia urbana stessa, dove la spettacolarizzazione del conflitto sociale è parte del messaggio.
Arresti, feriti e tensioni politiche
La questura romana segnala 11 fermi, alcuni dei quali ancora in corso di identificazione. Cinque minorenni – con precedenti assenti – sono trattenuti per atti di violenza, possesso di materiale pericoloso e tentata aggressione; gli altri fermati sarebbero adulti con collegamenti noti a ambienti antagonisti. Non sono escluse denunce a piede libero nei confronti di ulteriori manifestanti che si sono resi responsabili di attacchi contro agenti o strutture urbane.
Sul fronte dei feriti, fonti ospedaliere indicano che ci sono stati contusi e lievi lesioni da spruzzi di lacrimogeni e da spintoni, ma al momento non si parla di casi gravi. Le forze dell’ordine non hanno comunicato numeri ufficiali di propri agenti feriti.
Il dibattito politico è già esploso. Alcune forze di governo denunciano che la piazza “è stata strumentalizzata” da formazioni estreme, che hanno trasformato il corteo per fini propri. Altre forze di opposizione in parte difendono il diritto alla manifestazione, condannando però la violenza. Il Ministero dell’Interno ha già annunciato un’indagine interna per valutare eventuali errori tattici o comportamenti scorretti da parte della polizia.
L’episodio solleva interrogativi più profondi: qual è il confine tra legittima protesta sociale e minaccia all’ordine pubblico? Come possono le amministrazioni prevenire che piazze pacifiche vengano contaminate da mini-gruppi violenti? E soprattutto: quanto pesano, oggi, i circuiti digitali e le reti di attivismo sociale nel far convergere verso una manifestazione soggetti lontani e interessati a scontri?
Sguardo al domani: che tipo di sicurezza vogliamo?
La giornata odierna lascia cicatrici simboliche e materiali. Roma, città dalle contraddizioni antiche, si trova schiacciata in una voluta imposizione narrativa: da una parte il diritto alla manifestazione di solidarietà internazionalista, dall’altra il rischio che la piazza diventi arena di guerriglia urbana.
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