Addio alla “signora degli scimpanzé”: Jane Goodall

E’ venuta a mancare Dame Jane Goodall, celebre primatologa, etologa, ecologista, attivista del pianeta. Si è spenta serenamente, per cause naturali, negli Stati Uniti, dove si trovava per un tour di conferenze. Aveva 91 anni.
La notizia – confermata dal Jane Goodall Institute – ha immediatamente fatto il giro del mondo. Era attesa da migliaia di spettatori a Pasadena per un evento pubblico che avrebbe inaugurato una nuova iniziativa, ma il destino ha portato l’ultima parola all’imprevisto. Il giorno stesso, migliaia di persone si erano radunate pronti a seguirla: si dice che una copia registrata del suo discorso sia stata riprodotta per l’occasione.
Il nome di Jane Goodall è legato indissolubilmente a una rivoluzione degli studi sugli animali selvatici e dell’etologia: fu lei a dimostrare che gli scimpanzé non sono meri automi biologici, ma esseri con personalità, emozioni, capacità di usare strumenti, conflitti e cooperazione. Ha ridefinito il confine tra “noi” e “loro”, interrogando la stessa idea del primato umano.
Un destino che attendeva il momento giusto
Jane Morris Goodall nacque il 3 aprile 1934 a Londra, figlia di Mortimer e Vanne Goodall. Fin dall’infanzia mostrò una predilezione per gli animali, nutrendo sogni africani e leggendo avidamente libri di esploratori e avventure. Non poté compiere studi universitari tradizionali all’inizio, ma coltivò la sua aspirazione con dedizione, facendo lavori di segreteria e risparmiando per finanziare un viaggio in Kenya.
Quel viaggio fu fatale in senso positivo: nel 1957 la portò a incontrare Louis Leakey, il celebre paleoantropologo che intuì le sue qualità – curiosità, pazienza, spirito indipendente – e la propose come candidata per studiare gli scimpanzé in natura nel parco di Gombe, in Tanzania. Così, a circa 26 anni, iniziò il suo lavoro sul campo che avrebbe cambiato la storia della scienza.
L’avventura non fu facile: senza laurea formalmente acquisita, priva di esperienza accademica, Goodall si trovò immersa in una foresta selvaggia, fra insetti, condizioni climatiche estreme, predatori e difficoltà logistiche. Tuttavia, il suo approccio fu rivoluzionario: decise di stare tranquilla, sedersi, osservare, dare nomi agli individui – invece di numeri – e instaurare un rapporto che non fosse meramente estraneo allo studio, ma quasi empatico.
Nel 1960 iniziò l’osservazione sistematica degli scimpanzé di Gombe: fu lì che le sue scoperte rivoluzionarie presero forma. Documentò per prima l’uso di strumenti – come rami modificati per estrarre termiti – dimostrando che l’“uomo faber” non era una prerogativa esclusiva. Osservò scene di caccia, aggressioni, solidarietà madre-figlio, conflitti politici all’interno dei gruppi. Tolse il velo dalla convinzione che solo l’uomo fosse un agente morale e sociale.
Verso il 1965, già la comunità scientifica era al lavoro per recepire le sue idee. Goodall, sebbene non avesse una formazione accademica classica iniziale, ottenne in seguito il dottorato all’Università di Cambridge basandosi sulle sue ricerche sul campo.
Decenni di lotta, scienza e passione
Negli anni successivi la carriera di Goodall consolidò le prime novità come pietre miliari. Fondò il Jane Goodall Institute nel 1977, con lo scopo di promuovere la conservazione, il benessere degli animali e un rapporto sostenibile fra umani e natura.
Promosse il programma Roots & Shoots, destinato ai giovani, con l’intento di stimolare azioni concrete in ambiti locali: piantare alberi, proteggere gli habitat, sensibilizzare la comunità. Il motto era semplice quanto potente: “ogni individuo conta, ogni individuo fa la differenza”.
Nel corso della sua vita, Goodall fu ambasciatrice dell’UN come “Messenger of Peace”, e ricevette numerosi riconoscimenti: il titolo di Dame Commander dell’Ordine dell’Impero Britannico, il Premio Kyoto, vari premi ambientali internazionali e, nel 2025, la Presidential Medal of Freedom statunitense.
Non ha mai abbandonato il palco: fino all’ultimo, viaggiò, parlò, mobilitò. Anche durante la pandemia di COVID-19, lanciò il Hopecast, una forma di podcast per mantenere viva la speranza e il dialogo sull’ambiente e la nostra relazione con gli altri esseri viventi.
Raccontava spesso episodi che sembravano racconti: per il suo 90° compleanno, sarebbe stata sorpresa – secondo alcune fonti – da un gruppo di 90 cani su una spiaggia per celebrare con lei; racconti che servivano non solo a celebrare la leggenda, ma a ispirare chi l’ascoltava, giovani o meno.
Echi e ricadute nel presente
La morte di Jane Goodall ha suscitato onde concentriche nel mondo della scienza, della conservazione e del giornalismo. Leader mondiali, organizzazioni ambientaliste, università, giovani attivisti e comunità scientifiche hanno espresso cordoglio e gratitudine.
Ma vi sono storie meno note che meritano risalto, per cogliere l’ampiezza dell’impatto di Jane:
Gregoire, lo scimpanzé anziano del santuario: spesso menzionato nei documenti del Jane Goodall Institute, Gregoire visse in cattività per oltre quarant’anni prima di essere trasferito al Tchimpounga Sanctuary. Morì nel 2008 all’età di circa 66 anni. Era diventato simbolo della resilienza e dell’agire umano nel recupero e nella cura.
La scoperta delle culture negli scimpanzé: negli ultimi anni, studi successivi hanno confermato che diverse popolazioni di scimpanzé usano strumenti diversi, mostrando che possono esistere “culture” distinte nel mondo animale — un’eredità diretta del filone inaugurato da Goodall.
I giovani ricercatori africani: negli ultimi decenni Goodall incoraggiò la formazione di scienziati locali, per evitare che l’“osservatore dal di fuori” fosse sempre europeo o americano. Molti africani oggi dirigono programmi di conservazione nei loro Paesi, portando avanti le idee di responsabilità che Jane aveva sempre promosso.
L’impegno climatico e la giustizia ambientale: in anni recenti, Goodall si fece portavoce dell’urgenza climatica, collegando disboscamento, perdita di habitat e zoonosi — e invitando a un’azione collettiva. La pandemia aveva già messo in luce le fragilità del sistema Terra-uomo, e lei interpretava ogni crisi come un avvertimento per cambiare marcia.
L’Istituto Jane Goodall ha già dichiarato che continuerà a operare secondo la visione che la scienziata ha posto come fondamento: ricerca, tutela, sensibilizzazione, educazione. Le strutture, i programmi già in corso, i partenariati internazionali devono ora essere consolidati. Vi sarà bisogno di leadership condivise, nuove figure che sappiano parlare ai giovani, agire in politica, tradurre scienza in azione concreta.
In parallelo, la collaborazione internazionale tra scienziati, governi e ONG dovrà intensificarsi. Le sfide ambientali — cambiamenti climatici, perdita di biodiversità, pandemie — non conoscono frontiere: servono alleanze globali, governance efficace e cittadini consapevoli.
Infine, il “messaggio Goodall” dovrebbe permeare non solo le biologie e le scienze naturali, ma la cultura quotidiana. Le sue parole più ricorrenti erano legate all’empatia, al rispetto per ogni creatura vivente, all’attenzione al piccolo gesto: piantare un albero, non sprecare, parlare bene delle specie che abbiamo accanto.
Un’eredità che non muore
La partenza della “signora degli scimpanzé” segna la fine di un’epoca ma non cancella il suo lascito. In questi decenni Jane Goodall ha cambiato non solo la scienza, ma il modo in cui guardiamo il mondo vivente e noi stessi. Il suo esempio rimane una bussola: la curiosità senza pregiudizi, la pazienza della osservazione, la responsabilità verso chi non ha voce.
Il futuro della conservazione, degli studi sugli animali, dell’educazione ambientale può guardare avanti prendendo spunto dalle sue intuizioni e dalle sue sfide.
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