Verso Gaza: la Flottiglia “Global Sumud” entra nella zona a massimo rischio

Le acque del Mediterraneo orientale tornano a diventare teatro di tensione e incertezza. Una flotta civile di oltre cinquanta imbarcazioni, definita Global Sumud Flotilla, si dirige verso la Striscia di Gaza, con l’obiettivo dichiarato di infrangere il blocco navale imposto da Israele e portare aiuti umanitari alla popolazione palestinese. Dopo settimane di avvicinamento, attacchi con droni, pressioni diplomatiche e l’intensificarsi della sorveglianza militare, la flottiglia ha varcato il confine simbolico del “high-risk zone” — l’area di mare in cui il rischio di interventi militari è massimo.
L’annuncio dell’ingresso in questa zona critica è arrivato attraverso comunicati degli organizzatori, che affermano: “Il pericolo cresce, ma non torneremo indietro”. Nel frattempo, fonti internazionali riportano che alcune delle navi sono state avvicinate da imbarcazioni non identificate senza luci, e che l’attività di droni è aumentata sensibilmente. Le autorità israeliane, da parte loro, non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali dettagliate, ma il governo ha ribadito la sua intenzione di impedire qualsiasi violazione del blocco navale e ha evocato la possibilità di intercettazioni, sequestri e detenzioni delle imbarcazioni.
Tra provocazione, solidarietà e deterrenza: il profilo della flottiglia
La Global Sumud Flotilla non è un’iniziativa improvvisata: è il risultato di una mobilitazione internazionale che ha coinvolto attivisti civili, ONG, intellettuali, esponenti politici e cittadini da decine di paesi. Il suo obiettivo è duplice: compiere un gesto di solidarietà concreta verso Gaza, consegnando materiali e aiuti, e al contempo segnare un punto politico nel mondo, opponendosi al blocco marittimo che da molti viene denunciato come illegittimo.
Partita da Barcellona il 31 agosto 2025, la flottiglia ha attraversato il Mediterraneo con soste e imprevisti tecnici, e ha subito già precedenti attacchi attribuiti, dagli organizzatori, a droni non identificati. Alcune navi sono state colpite da esplosioni o “bombette stordenti” mentre si trovavano in mare aperto, in prossimità della Grecia o della zona di Creta. In almeno un caso, si è parlato di “spruzzi di sostanze chimiche sospette” e interferenze nelle comunicazioni radio.
Le imbarcazioni sono composte da volontari, operatori umanitari, parlamentari e figure internazionali come Greta Thunberg, presente a bordo. Alcuni Stati europei, come Italia e Spagna, hanno inviato navi della marina per “supporto e soccorso”, ma con limiti precisi: non è prevista una scorta fino alle acque palestinesi. In un recente annuncio, l’Italia ha dichiarato che la propria partecipazione navale si arresterà a circa 150 miglia nautiche da Gaza, per evitare un confronto diretto.
La legge internazionale sul mare e il nodo del blocco
Uno dei punti più dibattuti riguarda la presunta legalità del blocco israeliano e l’autorità del paese a intervenire in acque internazionali. Secondo gli organizzatori, il percorso della flottiglia resta fuori dalle acque territoriali di Israele, ma dentro zone dove il diritto internazionale limita gli interventi militari diretti. In altri termini, l’“intercettazione in alto mare” è considerata da molti esperti come una violazione delle norme marittime, specialmente se gli attivisti sono civili che trasportano aiuti.
Dall’altro lato, le autorità israeliane difendono il blocco come misura legittima di sicurezza durante un conflitto con Hamas, destinato — secondo il governo — a prevenire rifornimenti militari via mare. Lo Stato ebraico ha sostenuto che qualsiasi nave che si avvicini alla “zona di combattimento attivo” può essere considerata obiettivo per contrastare infiltrazioni o attività ostili.
Le tensioni giuridiche si intrecciano con quelle politiche e militari: se da una parte chi partecipa alla flottiglia invoca il diritto alla “rottura del silenzio”, dall’altra Israele avverte che non tollererà violazioni del blocco, proclamando che “non consentirà l’ingresso nel teatro di guerra”.
Incidenti verificati e attacchi denunciati
Mentre la flottiglia si spostava verso est, gli attacchi sono diventati sempre più frequenti. Il 23 settembre, numerose imbarcazioni hanno riferito esplosioni simultanee e utilizzo di droni sopra le loro teste. I volontari raccontano che parti della squadra hanno sentito ordigni esplodere in mare vicino ai ponti, e che le comunicazioni sono state disturbate da interferenze radio.
Uno dei racconti più dettagliati è quello della “Huga-Yatta”, una delle navi del convoglio, dove alcuni membri hanno affermato di assistere al lancio di bombe-sonica da droni e di leggere interferenze nelle frequenze VHF. Una parlamentare svedese a bordo ha dichiarato: “Abbiamo avvertito paura, ma più forte è diventata la convinzione che siamo in una missione non di guerra ma di pace. Perché veniamo trattati come nemici?”
Subito dopo, Italia e Spagna hanno inviato unità navali nelle vicinanze per offrire assistenza, segnalazione e soccorso ai volontari, sebbene con una partecipazione ostile o diretta limitata.
Un altro episodio significativo riguarda navi della flottiglia che sono state avvicinate da motoscafi senza luci, sospettati di operazioni clandestine. In alcuni casi, imbarcazioni “invisibili” illuminano le navi dell’operazione da dietro, generando allarme tra i volontari.
L’ingresso nell’“high-risk zone”
Con l’arrivo alla zona ad alto rischio, la flottiglia ha comunicato ufficialmente: “Siamo entrati nel tratto dove le missioni precedenti sono state attaccate o sequestrate.” Le fonti della flottiglia affermano che l’attività dei droni sopra le barche è cresciuta, così come le sirene di allarme. Alcune delle navi più vicine all’avanzamento accusano problemi tecnici causati da esplosioni vicine, e l’equipaggio parla di ore di tensione crescente.
Parallelamente, è stata registrata una maggiore sorveglianza radar e satellitare: check delle rotte, tracciamento da basi aeree esterne (anche dalla Turchia), e una pressione diplomatica internazionale sui paesi coinvolti. Il convoglio naviga ormai in zona pericolosa, dove ogni segnale — una luce accesa, un’imbarcazione non identificata, un relitto — può trasformarsi in esperienza potenzialmente letale.
La risposta israeliana e gli avvertimenti
Nonostante l’assenza di dichiarazioni ufficiali dettagliate in tempo reale, vari media israeliani hanno anticipato che le forze navali e di comando sono pronte a intervenire. Il canale nazionale Kan ha diffuso notizie secondo cui potrebbero essere dispiegati mezzi navali, unità speciali e sequestri delle navi, con la possibilità di affondare quelle che non obbediranno agli ordini di arresto. La Imbarcazione di comando potrebbe trattenere centinaia di attivisti, interrogarli e successivamente deportarli via il porto di Ashdod.
Fonti vicine all’intelligence israeliana citate da media regionali parlano dell’intenzione di non rimorchiare tutte le navi in mare, ma di neutralizzare o affondare alcune, per scoraggiare nuove operazioni simili. Il piano di pesca intermittente, ovvero l’intercettazione a tappe, consentirebbe a Israele di gestire l’impatto diplomatico, isolare le barche più resistenti e minimizzare esposizione internazionale.
In parallelo, alcune Organizzazioni delle Nazioni Unite e ONG internazionali — fra cui Amnesty International e Human Rights Watch — hanno manifestato preoccupazione per un intervento armato in acque dove civili trasportano aiuti. È stato richiamato che operazioni militari su navi in alto mare, se condotte senza garanzie di sicurezza, rischiano di causare una crisi diplomatica, oltre a costituire violazioni delle norme marittime internazionali.
Il punto di rottura tra la volontà di consegnare aiuti e il vincolo militare appare oggi al culmine: la flottiglia si muove verso una soglia dove ogni decisione — ritirarsi, forzare il blocco, affrontare l’intervento — comporterà costi enormi.
La pressione internazionale
L’impegno di alcuni paesi europei nel supporto logistico e navale, come Spagna e Italia, ha suscitato controversie ma anche una forte visibilità mediatica. Le autorità spagnole hanno definito la flottiglia “senza minacce” nei confronti di Israele, e hanno ribadito il proprio obiettivo come umanitario. Il governo italiano ha avanzato la proposta di scaricare l’aiuto a Cipro, tramite canali meno conflittuali, ma la flottiglia ha respinto l’idea: la rotta diretta è politica tanto quanto pratica.
Molti governi occidentali, mentre esprimono preoccupazione per l’escalation, evitano posizionamenti netti: si teme che l’intercettazione delle navi possa generare proteste diffuse e aggravare il clima internazionale. È prevedibile che l’Unione europea possa intervenire con appelli al rispetto del diritto marittimo e chiedere garanzie di sicurezza per i civili coinvolti.
Un attacco in mare contro navi civili genererebbe immediatamente una reazione internazionale: proteste diplomatiche, possibili sanzioni simboliche, mobilitazioni dell’opinione pubblica.
In parallelo, per Israele il rischio è una perdita di legittimità morale su scala mondiale — un bilanciamento delicato rispetto alla necessità militare di neutralizzare possibili infiltrazioni. Se le navi in questione fossero colluse con gruppi armati (accusa che il governo israeliano spesso muove), l’intervento potrebbe essere interiormente giustificato come atto di difesa.
Ma una decisione aggressiva — affondare o sequestrare — comporta un’incognita enorme: la morte di civili partecipanti, molti dei quali pacifici, potrebbe essere un punto di svolta diplomatico. In questa lotta mediatica, la flottiglia rappresenta un banco di prova per l’equilibrio tra azione militare e percezione globale.
Dietro le bandiere e le imbarcazioni, ci sono decine di volontari con storie che intrecciano idealismo, paura, determinatezza. Un comico irlandese a bordo ha rilasciato un messaggio pubblico, dichiarando di avere “nessun rimpianto” — ha deciso di partecipare come atto di solidarietà consapevole del rischio. Altri parlano di motivazioni religiose, sensibilità civile, desiderio di testimonianza contro la morte silenziosa di Gaza.
Molti attivisti sottolineano che non sono armati, non sono una minaccia militare: il loro intento è consegnare beni medici, cibo, prodotti essenziali. In un contesto in cui gran parte della popolazione di Gaza vive con scorte minime, l’azione ha valore simbolico ma può anche significare una boccata di ossigeno per chi è assediato.
Alcuni veterani di missioni simili ricordano il prezzo pagato: l’operazione del 2010 costò vite; altre flotte furono bloccate o devastate. Oggi, i volontari navigano consapevoli delle telecamere del mondo puntate su di loro — e del fatto che ogni gesto potrebbe trasformarsi in un simbolo globale della crisi palestinese.
Diritto marittimo, guerra e protezione civile
Un nodo centrale riguarda le norme internazionali del mare: se una nave civile con finalità umanitarie viene attaccata in alto mare, vi è potenziale causa di violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS). Le autorità che intervengono dovrebbero rispettare principi di proporzionalità e non discriminazione, garantendo la sicurezza dei civili. In casi di conflitto armato, il trattato di diritto umanitario marittimo (inclusi i principi del Protocollo I) impone limitazioni agli atti che coinvolgono unità civili.
Se Israele considera la zona in cui la flottiglia naviga come “zona di guerra attiva”, la sua giurisdizione militare può essere invocata, ma questo non autorizza automaticamente atti che mettono in pericolo civili. Ogni operazione navale condotta contro imbarcazioni con civili richiede valutazioni legali, specifiche autorizzazioni e regole ferree di ingaggio.
Le ONG che accompagnano la flottiglia chiedono garanzie: che i volontari vengano trattati come civili protetti, che non si usino armi letali, che si consenta a osservatori neutrali di monitorare l’azione, che si evitino atti che possano configurare una “punizione collettiva” contro i partecipanti.
La flottiglia attuale appare come la missione marittima più ambiziosa e internazionale degli ultimi anni verso Gaza. Con oltre cinquanta navi, decine di paesi coinvolti e la partecipazione di figure dell’attivismo ambientale e civile, essa si pone come una tensione-limite fra la solidarietà globale e l’uso della forza.
Se le autorità israeliane procederanno all’intercettazione aggressiva, si aprirà un confronto durevole non solo in mare, ma nelle ambasciate, nei tribunali internazionali, nelle piazze globali. Se invece prevarrà una strategia di mediazione, la flottiglia otterrà un successo parziale simbolico — ma ridimensionato rispetto alle sue ambizioni.
Il cuore della questione sta nell’equilibrio tra diritto e potere: chi ha la forza militare, quanto può spingere il confine del consenso internazionale senza rompere la soglia della legittimità?
Le prossime ore saranno decisive.
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