8:25 am, 25 Settembre 25 calendario

Il caso TikTok che infiamma il dibattito sull’Apocalisse

Di: Alessandra Puzzo
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Nelle ultime settimane, nelle pieghe meno attese dell’algoritmo TikTok, è esplosa una tendenza carica di tensione millenaristica: l’hashtag #rapture, accompagnato da predizioni apocalittiche che suggeriscono come imminente un rapimento divino — la cosiddetta “rapture”. Secondo quanto rilanciato da diversi media, un presunto visionario sudafricano, Joshua Mhlakela, avrebbe annunciato che il 23 o 24 settembre del 2025 sarebbe il giorno dell’evento escatologico: Cristo – si leggono i messaggi – risalirà in cielo insieme ai giusti, lasciando sulla Terra chi non ha fede.

L’onda virale ha assunto proporzioni tali da essere definita la “prima grande apocalisse TikTok”, con centinaia di migliaia di video, dileggi e credenti in fermento.

Ma dietro al clamore c’è una storia ben più antica: profezie mancate, paure religiose, meccanismi di amplificazione digitale.

Le origini del fenomeno: come nasce l’idea

Il concetto di “rapture” non è biblico nel senso del termine (la parola non compare nelle versioni tradotte); è piuttosto un’elaborazione teologica sviluppatasi tra gli evangelici moderni, che reinterpreta passi come 1 Tessalonicesi 4, 1 Corinzi 15 e Matteo 24 come segnali di un rapimento ante‐tribolazione: i credenti sarebbero portati in cielo prima che la Terra attraversi un periodo di tribolazioni.

Questa visione si è sedimentata nel mondo evangelico nel XIX e XX secolo, affiancandosi a teorie dispensazionaliste che dividono la storia in epoche successive. Nel corso delle decadi, si è arricchita di elementi numerologici, simbolismi astrologici e attese escatologiche che anticipano tempi di giudizio e cataclismi.

Così, nelle comunità premillenariste, la Rapture è diventata più che un evento teologico: un elemento identitario, capace di mobilitare paure, speranze e discorsi politici.

Nel secolo scorso non mancarono casi eclatanti: nel 1988 l’ex ingegnere NASA Edgar C. Whisenant predisse il rapimento in concomitanza con Rosh Hashanah, stimolando migliaia di adesioni.

Nel 2011, il televangelista Harold Camping fissò la “fine” al 21 maggio, prima con un rapimento e poi con il giudizio finale: la data passò, ma l’eco del fallimento restò impressa – e gli aderenti dovettero fare i conti con le conseguenze sociali e personali.

Tali “proclamazioni del giorno ultimo” affiorano ciclicamente in momenti di crisi: guerre, pandemie, catastrofi climatiche. In altri termini, quando il presente sembra ingestibile, l’idea di uno sfondamento trascendente – salvezza o punizione – diventa più attraente.

Questa attualità digitale si inserisce proprio in quel modello: profezie mediate da video, retoriche della “verità rivelata” filtrate dall’algoritmo.

Il caso Mhlakela: come è scoppiato il “RaptureTok”

L’innesco dell’ultima ondata è il video del sudafricano Joshua Mhlakela, caricato qualche mese fa su YouTube e poi rilanciato su TikTok. In esso, il predicatore afferma che visioni lo avrebbero informato del rapimento imminente, fissato nei giorni del 23 e 24 settembre 2025.

Queste date non sono casuali: coincidono con il calendario ebraico (Rosh Hashanah) secondo alcuni interpreti, e con motivazioni simboliche secondo altri. Il pastore afferma che Gesù lo avrebbe chiamato a un compito missionario: avvertire l’umanità del giudizio imminente.

L’esplosione è avvenuta su TikTok: decine di migliaia di video, col hashtag #rapture (o #rapturetok), hanno reinterpretato il messaggio in chiave confessionale, satirica, comica o divulgativa. Alcuni utenti – influenzati – hanno annunciato dimissioni, vendite di beni, accensioni emotive perfino in ambito familiare.

Non è una novità che TikTok generi bolle tematiche: l’algoritmo favorisce contenuti che suscitano forte reazione, spingendo a una spirale d’interazione. Un contenuto religioso forte, che evoca “fine del mondo”, contiene la tensione narrativa perfetta per diventare “virale”.

Reazioni e impatti sociali

Tra credenti e scettici

La risposta è stata immediata e polarizzata. Molti cristiani evangelici, pur non aderendo alla predizione, hanno ribadito l’incoerenza dell’idea di fissare una data, citando testi come “di quel giorno e di quella ora nessuno sa” (Matteo 24,36).

Altri hanno accolto l’appello come un invito a pregare, pentirsi, testimoniare. Alcune comunità locali hanno predisposto momenti di veglia, trasmissioni streaming e riflessioni pubbliche.

Dall’altra parte, scettici e commentatori laici hanno preso d’assalto i social con meme, dibattiti filosofici e ironie puntuali: “E se il rapimento è solo un click tropo?”, “Chi rimane si prende la casa del raptured?” e simili battute proliferano.

Per certa stampa, l’evento non è tanto la profezia, quanto la performance virale: un ibrido tra sermone e intrattenimento, plasmato su metriche emotive e di engagement.

Disturbi emotivi e “ansia da rapimento”

Non va sottovalutata la dimensione psicologica: in ambito religioso è noto il fenomeno della rapture anxiety, ovvero un’ansia persistente legata alla paura di essere lasciati indietro. Chi cresce in contesti che enfatizzano il rapimento può sviluppare timori profondi, incubi o ossessioni.

In questa tornata, testimonianze di depressione, senso di colpa e disorientamento sono filtrate dai social: alcuni utenti che avevano seguito il movimento raccontano il vuoto lasciato dalla mancata manifestazione, i dubbi ritornanti, la perdita di credibilità verso figure religiose.

Un caso eclatante: la comica Sherri Shepherd, in un episodio autobiografico, riconobbe che in passato aveva rinunciato alle sue responsabilità (bollette, multe) pensando che non servissero più in vista del rapimento, finendo poi in carcere per otto giorni.

Al di là del singolo racconto, resta da chiedersi se fenomeni mediatici del genere generino una “micro-fragilità collettiva”: un’eco emotiva che rimane anche dopo l’onda virale.

Il “dopo” della profezia mancata

Arrivato il 23 (e poi il 24) settembre, l’attesa a lungo decantata – per molti – non si è concretizzata. Come sempre accade in questi casi, si aprono due vie: il discredito totale del profeta e la sua predizione, o una reinterpretazione, un “rimando” o una esegesi retroattiva che rivede le date o spiega il non-evento come test spirituale.

I media internazionali hanno già segnalato storie di delusione e rabbia tra chi aveva preso la predizione alla lettera: persi esami, abbandonate relazioni, compromessi. Alcuni parlano di “rapture depression”.

Storici del fenomeno avvertono che la mancata verità non disinnesca la macchina profetica: il tempo dell’attesa può essere spostato, la crisi reinterpretata come segnale di “vicinanza”, la fede riorientata su un nuovo “segno”. È un ciclo che si è ripetuto tante volte.

Profezie passate: una mappa di fallimenti

Il fenomeno attuale ha radici profonde e numerose corrispondenze storiche. Ecco alcune tappe emblematiche:

1844 – Il “Grande Disappunto”: William Miller annunciò che Cristo sarebbe tornato in quell’anno. Quando niente accadde, fu definito il “Great Disappointment”. Molti fondarono i movimenti avventisti.

1988 – Edgar C. Whisenant: con 88 Reasons Why the Rapture Will Be, fissò date precise per il rapimento, generando attese e poi delusioni.

2011 – Harold Camping: predice il 21 maggio come giorno del rapimento e ottobre come giudizio finale. Quando le scadenze non arrivarono, la credibilità del movimento vacillò ma in molti rimasero aggrappati.

Decine di altri casi minori: predizioni legate a eclissi, “blood moons”, allineamenti planetari, numerologie biblistiche. Il trend è quasi ossessivo nella cultura cristiana millenarista.

Tuttavia, ciascun fallimento non ha sradicato la credenza: anzi, ha fornito materiale retorico e insegnamenti rituali (spostare la data, interpretare le discrepanze come simboliche, valorizzare i “falsi profeti” come prove). Il meccanismo è resiliente.

Il “media teologico”: tool digitali della fede

Questa ondata virale rivela come religione e tecnologia si innestino in un terreno ibrido. Quali strumenti operano?

Algoritmi emotivi

L’algoritmo TikTok premia contenuto con forte reazione: strepito emotivo, dubbio, ansia. Le predizioni escatologiche offrono esattamente questo: sospensione, paura, promessa. Il risultato è che certi video spinti generano eco incontrollata.

Contenuto virale come sermone

Il video del predicatore, rimaneggiato tramite montaggi, sottotitoli, remix, meme, diventa un sermone “frammentato” e moltiplicato: i messaggi si diffondono non più solo nella chiesa, ma nei feed quotidiani. Le comunità del “rapture” oggi non vivono solo in chiesa, ma dentro TikTok.

Monetizzazione dell’ansia

In alcuni ambienti religiosi, il sospetto è che si monetizzi la paura: libri, donazioni, corsi esoterici. In altri studi (come quello brasiliano su Telegram) si è osservato come discorsi apocalittici agiscano da “gateway” verso teorie del complotto e corsi “quantistici” venduti a caro prezzo.

Resilienza del discorso escatologico

Ogni profezia mancata non è una ferita mortale, ma un momento di riassemblaggio. I sistemi religiosi che incorporano profezie funzionano spesso su un modello adattivo: reinterpretare i fallimenti come prove o come allegorie, ridistribuire l’attesa in nuovi cicli.

Cosa ci dice questa “apocalisse social” dei tempi attuali

1. La religioso-digitale è un campo emotivo

L’attesa del trascendente oggi si gioca anche sui feed, nelle condivisioni, nei commenti. Chi crede non legge solo la Bibbia: scorre, condivide, risponde. Il credente diventa “creatore”: il video rituale è un’istanza performativa.

2. Crisi esistenziali e religiose si intrecciano

In un presente segnato da guerre, crisi climatica, pandemie e instabilità politica, l’idea del collasso divino attrae. L’apocalisse diventa una lente per leggere il chaos.

Analisti suggeriscono che le predizioni escatologiche siano una risposta simbolica al senso d’impotenza: se non puoi controllare il mondo, puoi attendere che lo faccia un Altro.

3. La fallacia del “giorno vicino”

I critici delle profezie datate ricordano che molte correnti cristiane, e molti teologi affidabili, affermano che nessuno conosce il giorno, che Cristo tornerà “come un ladro nella notte”. Fissare date precise è spesso considerato un errore interpretativo.

Eppure, questo non ferma chi confida nel “segreto rivelato”. In ambienti evangelici, la tensione tra “non sapere” e “sapere” è un motore teologico.

4. Il confine tra fede, spettacolo e disinformazione

In questo episodio, la profezia non è solo una proposta teologica: è spettacolo, performance, networking. La distinzione tra genuino fervore e marketing apocalittico è labile. Dove finisce l’evangelismo e dove comincia la manipolazione? È una domanda che le comunità religiose, i regolatori digitali e il pubblico laico dovranno sempre più porsi.

Retoriche della speranza e rischio dell’illusione

Il fenomeno TikTok-Rapture può apparire come un caso estremo o un fenomeno passeggero da meme religiosi. Ma dietro al flusso virale si nasconde un tessuto ricco di storia, di paure e speranze.

Le profezie mancate non spiegano solo un falso allarme: rivelano le debolezze e le risorse del discorso religioso moderno, che deve negoziare tra tradizione e rete, tra autorità della Bibbia e logica dell’algoritmo.

25 Settembre 2025
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