Trump all’Onu: la sfida delle “sette guerre” e la credibilità di chi dichiara la pace

Durante il suo intervento davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Donald Trump ha sostenuto di aver “messo fine a sette guerre che tutti dicevano non si potessero terminare”. Una dichiarazione forte, che ha acceso discussioni diplomatiche, politiche e mediatiche: cosa intende esattamente il presidente statunitense con “mettere fine”, quali sono gli scenari che cita, che ruolo ha avuto realmente l’ONU, e quanto può essere verificata questa rivendicazione? In un contesto già teso come quello internazionale, con guerre, migrazioni, crisi energetiche e forti tensioni tra blocchi, il discorso del presidente Usa offre un punto di vista altamente performativo e simbolico – ma anche molto controverso.
Il discorso: cosa ha detto Trump all’ONU
Nel suo discorso all’Assemblea Generale, Trump ha affermato che in sette mesi ha concluso sette conflitti che erano ritenuti “non terminabili”.
Ha inoltre sostenuto che, in tutti i casi, le Nazioni Unite non lo hanno aiutato a chiudere questi conflitti, e che nessuno lo ha ringraziato per questi interventi, nonostante vi fossero migliaia di vittime nei conflitti stessi.
Tra i conflitti citati da Trump:
India e Pakistan.
Armenia e Azerbaigian.
Egitto ed Etiopia.
Ruanda e Repubblica Democratica del Congo.
Israele e Iran.
Serbia e Kosovo.
Tailandia e Cambogia.
Ha inoltre criticato l’Unione Europea per dipendere dal petrolio russo, definendola “imbarazzante” nel suo operare nonostante la guerra in Ucraina.
Le affermazioni di Trump sono state prontamente messe sotto la lente dai giornalisti, dagli esperti di relazioni internazionali e dal fact‑checking. Ecco alcuni punti chiave:
1. “Mettere fine” non equivale necessariamente a un cessate il fuoco completo o a una reale pacificazione
Spesso, quando si parla di “fine” di una guerra, si può intendere una tregua, un accordo diplomatico, una riduzione delle ostilità, oppure semplicemente un cessate il fuoco parziale, anche temporaneo. Ma non sempre ciò significa che il conflitto sia risolto nei termini strutturali: radici etniche, migrazioni forzate, problemi di confine, tensioni nazionalistiche rimangono. Alcuni conflitti citati da Trump, come quello tra Armenia e Azerbaigian, hanno avuto crisi periodiche, anche se consentono accordi formali; ma dire che siano “terminati” può essere una semplificazione.
2. Contestazioni: India-Pakistan ne è un esempio
Trump ha rivendicato un ruolo nel mediare una tregua o un accordo tra India e Pakistan dopo attacchi contro campi terroristi. Tuttavia, il governo di New Delhi ha negato tali attribuzioni.
3. Le guerre in corso: Ucraina, Medio Oriente, crisi africane
Molti conflitti che per anni hanno attirato l’interesse internazionale — ad esempio la guerra tra Russia e Ucraina — non possono essere considerati “terminati”. Le ostilità continuano, così come le perdite civili e militari, i rifugiati, la distruzione. Trump stesso ha ammesso che la guerra Russia‐Ucraina è stata più complessa da risolvere del previsto.
4. Ruolo dell’ONU nella mediazione
Trump ha lamentato che le Nazioni Unite non lo abbiano aiutato: “non ho mai ricevuto una telefonata” da parte loro per finalizzare accordi. Questa accusa implica che la mediazione internazionale non abbia risposto o che non sia stata coinvolta in modo attivo. Ma da decenni l’ONU è stata parte in molte operazioni diplomatiche, commissioni miste, osservatori, sanzioni, aiuti umanitari — anche se i risultati concreti spesso dipendono dalla cooperazione degli Stati membri, dai mandati internazionali, dalla volontà politica locale. Influire direttamente su conflitti armati richiede anche azioni che vanno al di là del solo discorso.
5. Il confine tra propaganda e realtà
Diverse fonti di fact‐checking indicano che le rivendicazioni di Trump sono esagerate o presentate in modo tale da semplificare situazioni complesse. Alcuni conflitti citati non erano formalmente in guerra al momento, o non c’è evidenza che siano terminati definitivamente.
La politica degli annunci
È utile guardare al passato per capire come Trump, ma anche altri leader, hanno usato il linguaggio della pace per ottenere vantaggi politici o diplomatici.
Primo mandato Trump (2017‑2021): già allora si fecero molte promesse di accordi di pace, mediazioni, ma anche molte guerre rimasero aperte (Afghanistan, Siria, Yemen, etc.).
Accordi di Abramo: uno dei maggiori successi diplomatici reclamati da Trump nel primo mandato, con la normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni paesi arabi. Ma non si tratta di guerre “terminate” nel senso classico.
Mediazioni precedenti: conflitti tra Armenia e Azerbaigian, tra Congo e Ruanda, tra Pakistan e India sono stati oggetto di negoziati modesti o di cessate il fuoco temporanei nel corso degli ultimi anni, ma spesso con ricadute.
Altre affermazioni di leader mondiali che rivendicano vittorie diplomatiche o dichiarazioni di pace quando in realtà la realtà sul campo è più sfumata.
Reazioni internazionali e diplomatiche
La rivendicazione di Trump non è passata inosservata. Alcune reazioni:
Governativi che hanno negato le rivendicazioni su alcuni conflitti — come India.
Critiche da parte di giornalisti ed analisti che sottolineano la discrepanza tra ciò che viene detto e ciò che è verificabile.
Domande sull’utilità del sistema multilaterale: se il presidente Usa afferma che l’ONU “non ha aiutato”, ciò getta ombre sul valore percepito delle istituzioni internazionali agli occhi di alcune nazioni, specie in scenari dove più attori nazionali si trovano competitori.
Possibili implicazioni politiche
Per la credibilità di Trump
Dichiarazioni come questa servono anche a costruire un’immagine di leader forte, capace di azione concreta. Ma se le affermazioni vengono smentite o appaiono gonfiate, possono danneggiare la credibilità, specialmente in ambito internazionale.
Per le Nazioni Unite
Essere attaccate direttamente dal presidente degli Stati Uniti in un’assemblea mondiale mette in rilievo limiti percepiti e reali dell’ONU: assenza di potere coercitivo, dipendenza dalle volontà dei membri, complessità delle mediazioni.
Per gli alleati e gli avversari
Gli alleati europei, paesi coinvolti nei conflitti, organizzazioni umanitarie — tutti vengono messi in una posizione di dover rispondere: o sostenere, o contestare, o chiedere evidenze. Questo può aumentare divisioni, sospetti, nazionalismo diplomatico.
Per l’opinione pubblica globale
L’uso della retorica della pace funziona se la gente percepisce risultati tangibili: fine dei morti, ritorno delle persone alle case, ricostruzione, stabilità. Se queste condizioni non si avverano, le promesse rischiano di essere lette come propaganda.
Quali guerre sono menzionate e cosa ne sappiamo finora
Ecco una sintesi dei conflitti che Trump ha citato, lo stato attuale, e le principali contestazioni:
India‑Pakistan Tensioni ancora alte; il governo indiano nega il ruolo di mediazione di Trump. Una tregua o decremento delle tensioni non è necessariamente il “fine” di una guerra; assenza di accordo formale chiaro.
Armenia‑Azerbaigian Dopo la guerra del 2020, seguiti accordi ma anche crisi localizzate; questioni di confine persistono. Crisi occasionali rimangono; “fine” suggerisce stabilità duratura, che non è pienamente garantita.
Egitto‑Etiopia La disputa legata alla Grande diga del Nilo (GERD) è in corso da anni; dialoghi diplomatici sono attivi. Non ci sono segni di conflitto armato aperto su larga scala, ma è controversia non risolta.
Ruanda‑Repubblica Democratica del Congo Conflitti di frontiera, milizie, instabilità interna; miglioramenti in certi momenti, ma non pace assoluta. La presenza di violenza continua in regioni remote; complessità etniche, economiche, politiche profonde.
Israele‑Iran Tensioni elevate; non è chiaro se ci sia stato un accordo formale tra i due Paesi. Non sono state annunciate cessazioni delle ostilità ufficiali; conflitti indiretti persistono.
Serbia‑Kosovo Situazione fragile, soprattutto sul piano diplomático e amministrativo, ma non guerra attiva su scala grande. Questioni di riconoscimento, autonomia, minoranze; ma “guerra” ad alto profilo non in corso come negli anni passati.
Tailandia‑Cambogia Confini e questioni storiche di frontiera; ma nessuna guerra recente su larga scala. Suggestione che conflitti di confine o dispute localizzate siano stati “risolti”, ma non necessariamente nei termini di “guerra” per molti osservatori.
Le possibili strategie
Narrativa elettorale: proiettare forza, efficacia, leadership nel mondo serve tanto per uso interno quanto per l’immagine estera.
Controllo delle percezioni: consolidare un’immagine di pacificatore che “risolve ciò che altri non potevano” dà prestigio.
Sfida al multilateralismo: dichiarando che l’ONU non ha aiutato, Trump rafforza l’idea che gli Stati Uniti devono agire da soli, secondo la propria agenda.
Pressione diplomatica: gli interlocutori citati (India, Pakistan, Egitto, Etiopia, etc.) possono sentirsi spinti a riconoscere o accettare versioni ufficiali di accordi che magari erano già in corso o parziali.
L’ONU fra limiti e aspettative
Il sistema delle Nazioni Unite è stato creato con lo scopo di promuovere la pace, prevenire conflitti, coordinare aiuti umanitari, sorvegliare il rispetto dei diritti umani. Ma:
Mancano poteri coercitivi: l’ONU non ha un esercito permanente; dipende dagli impegni dei membri.
Mandati complessi e spesso contrastanti: pacificazione, diritti territoriali, sovranità, sviluppo umano — questi obiettivi non sempre coincidono.
Risorse limitate rispetto alle aspettative; burocrazia; ostacoli politici quando gli Stati più potenti hanno interessi divergenti.
Fra realtà, aspirazioni e retorica
L’affermazione “ho messo fine a sette guerre” va vista come una combinazione di struttura retorica, messaggio politico e tentativo di ridefinire il racconto storico attorno all’azione del governo Trump. Non è detto che ogni conflitto abbia davvero “terminato”; alcuni sono stati messi in pausa, altri attenuati, ma molti restano aperti o in equilibrio precario.
La “pace” che Trump rivendica è in larga misura una costruzione narrativa — utile per consolidare consenso interno, sfidare interlocutori internazionali, definire una visione di ordine globale centrata su sovranità, interventismo selettivo e leadership americana.
Per gli osservatori, tuttavia, il test sarà misurare non solo se gli scontri scemeranno, ma se la stabilità, le condizioni per tornare alla normalità, il dialogo politico e civile, i diritti umani e le infrastrutture verranno restaurati.
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