Ucciso operatore MSF a Gaza, l’urlo del silenzio umanitario

È morto dopo cinque giorni di agonia Hussein Alnajjar, infermiere per Medici Senza Frontiere, ferito da schegge durante un bombardamento israeliano nei pressi della tenda dove stava lavorando. Colpito da un attacco aereo, è l’ultimo nome in una lista lunga ormai troppo. È ormai il tredicesimo collega di MSF caduto da quando il conflitto tra Israeliani e Palestinesi è esploso l’11 ottobre 2023. Questo dramma pone nuovamente al centro della scena la vulnerabilità – quasi sistemica – degli operatori umanitari nella Striscia di Gaza, l’impossibilità per molti di trovare riparo, le responsabilità che restano impunite.
Chi era Hussein Alnajjar e ciò che il suo sacrificio rivela
Hussein Alnajjar non era un volontario improvvisato: padre di tre figli, lavorava nell’area di Deir al-Balah e Khan Younis con MSF dal gennaio 2024. L’aria che respirava, le strade che percorreva, le tende nelle quali operava erano già da tempo riconosciute come zone a rischio, ma la sua morte – causata da frammenti esplosi in un attacco che ha colpito una tenda vicino al suo posto medico – è stata l’ennesima conferma che nessuna protezione è garantita. Anche la sua famiglia è stata colpita: la cognata e un nipote sono rimasti feriti durante lo stesso attacco.
Non solo una tragedia personale ma un punto di rottura nella percezione stessa della tutela umanitaria: non basta avere il camice bianco, non basta esporsi per curare, quando il campo di guerra non distingue bene tra chi sfugge e chi sta compiendo un gesto di cura.
Una guerra che ha fatto dell’umanitario un obiettivo
Da oltre un anno Gaza è un territorio dove medici, infermieri, volontari e personale ausiliario operano sotto fuoco continuo. Le strutture sanitarie sono danneggiate, bombardate, trashed; i convogli umanitari spesso intercettati; gli operatori feriti, rapiti, uccisi.
MSF documenta almeno 13 vittime tra il proprio personale, molti degli attacchi avvenuti mentre si tentava di curare o di salvare vite. Non poche famiglie degli operatori, vivevano già sotto attacchi, con le abitazioni distrutte, con difficoltà continue di movimento e comunicazione. Quasi nessuno è al sicuro, anche dentro ospedali, cliniche o rifugi riconosciuti come tali.
L’ong denuncia che alcune delle strutture sono state chiaramente segnalate come centri sanitari, ospedali, cliniche. Eppure, in molti casi, gli attacchi non sembrano discriminanti, ma risultano indiscriminati o, almeno, approssimativi. Ci sono zone più fragili: Deir al-Balah, Khan Younis, Jabalia, le aree dove la saturazione di popolazione, la distruzione delle infrastrutture, la carenza di acqua e cibo rendono già complicato il solo fatto di sopravvivere.
Non è un evento isolato
Per capire quanto sia grave la situazione, basta tornare indietro negli ultimi mesi:
Bilal Okal, agente per l’igiene, è stato ucciso insieme a molti familiari durante un attacco nella zona di Jabalia, dopo essere rimasto intrappolato con loro sotto bombardamento e senza via d’uscita sicura.
Fadi Al-Wadiya, fisioterapista e padre di tre figli, tornava al suo lavoro quando è stato colpito da un attacco. Non stava svolgendo funzioni militari né era in una posizione che potesse essere considerata bersaglio legittimo.
Altri casi comprendono il personale di lavanderia, vigilantes, addetti alle pulizie, guardiani, assistenti vari: figure che non curano direttamente, ma supportano il funzionamento delle strutture sanitarie. Anche loro sono stati vittime di esplosioni, raid, schegge, crolli.
Queste perdite non sono “eventi collaterali”; sono parte integrante del tessuto sanitario che collassa in strutture già sotto pressione straordinaria, in un territorio dove le protezioni offerte dal diritto internazionale umanitario sono spesso violate o inefficaci.
Sistema sanitario di Gaza: implosione lenta
La morte di un operatore sanitario è un cerchio che si chiude nel dolore collettivo:
- La carenza di staff diventa sempre più acuta. Medici e infermieri già sovraccarichi, devono coprire ruoli che normalmente richiedono team più numerosi. Il rischio di burnout, di errori, di decisioni impossibili cresce.
- Molte strutture – ospedali, ambulatori, centri mobili – sono state danneggiate o distrutte. Alcune zone del nord restano teatro di attacchi che impediscono anche il solo accesso di pazienti gravi.
- I percorsi di evacuazione, di trasporto dei feriti, sono sempre più rischiosi: ambulanze bloccate, corridoi umanitari mal definiti, autorizzazioni che non arrivano, accessi negati, confusione sui “deconflicted routes”.
- Il collasso delle forniture: farmaci, carburante, ossigeno, acqua – tutto raggiunge livelli critici. Ospedali che lavorano al di sotto delle condizioni minime di sicurezza tecnica ed umana.
Responsabilità, diritto internazionale e l’impunità imperante
Quando muore un operatore sanitario o un collaboratore MSF non è solo una tragedia morale, ma una questione di responsabilità:
Il diritto internazionale umanitario riconosce la protezione dei sanitari e delle infrastrutture sanitarie, così come dei convogli umanitari. Quando vengono attaccati, quando operano dove la guerra è attiva, questa protezione deve essere rispettata.
Spesso, però, le indagini non sono trasparenti. Le autorità che effettuano gli attacchi non sempre forniscono chiarimenti, né prove indipendenti. Le parole “errore”, “mistake” o “colpa collaterale” vengono invocate, ma non bastano.
L’assenza di sanzioni efficaci, la difficoltà ad accedere sul campo per investigatori, il travaglio legale internazionale, la sovrapposizione di accuse contrastanti: tutto ciò crea un ambiente di quasi totale impunità.
Le reazioni della comunità internazionale e delle ONG
MSF ha espresso indignazione, dolore, denuncia: definisce questi attacchi “non mere tragedie”, ma episodi che dimostrano quanto fragile sia la protezione legale e materiale degli operatori umanitari.
Altri enti umanitari, insieme ad organismi delle Nazioni Unite, hanno chiesto un cessate il fuoco permanente, un accesso umanitario garantito, maggiore trasparenza su scala internazionale, inclusa la partecipazione alle indagini.
Vi sono pressioni su governi e organismi multilaterali affinché sospendano forniture militari, ripensino la cooperazione parametrata ai rispetto dei diritti umani, condizionino i rapporti con chi è ritenuto responsabile di violazioni.
Una nuova soglia
Perché la morte di Alnajjar, pur atroce, deve essere letta come un punto di svolta, non come un episodio isolato:
- Quantità: il numero dei sanitari uccisi supera la semplice sequenza di disastri. È una crisi sistemica.
- Distinzione delle figure: non sono solo medici o infermieri, ma operatori di supporto, figure locali che spesso vivono nel luogo, rischiano quotidianamente, che non godono di protezioni esterne.
- Alla provenienza “locale”: molti operatori sono palestinesi che vivono nel conflitto; non sono “stranieri” che possono essere evacuati. Questo rende la sofferenza meno visibile all’estero, meno protetta.
- Riduzione degli spazi sicuri: anche ospedali, cliniche segnalate, convogli umanitari, rifugi sono colpiti. La protezione che una volta si pensava valida – il segno rosso della croce, il diritto riconosciuto – sembra non bastare.
Quali strade restano aperte
Un cessate il fuoco reale, sostenuto da garanzie internazionali, che permetta almeno la stabilizzazione minima degli interventi umanitari.
Un rafforzamento delle norme internazionali e dei meccanismi di investigazione indipendente per lesioni, morti, danni alle strutture sanitarie.
Maggiore pressione diplomatica affinché attori militari rispettino le indicazioni sulle “no strike zones”, sui corridoi umanitari, sui segnali visibili e sulle comunicazioni preventive quando possibile.
Ampliare e proteggere logisticamente l’accesso di personale sanitario internazionale e locale, con mezzi di trasporto chiaramente riconoscibili, protezione degli ospedali, sicurezza per i convogli.
Coinvolgimento dei governi partner, delle istituzioni europee, delle organizzazioni internazionali nell’assumersi responsabilità concrete: sanzioni, condizioni alle forniture militari, supporto alla ricostruzione.
La morte di Hussein Alnajjar non è solo un’altra notizia tragica che scorre sulla pagina. È l’emblema di una guerra che ha scelto di non risparmiare nemmeno chi ha scelto di curare e salvare.
Osservando le macerie delle case, dei sogni, delle vite, l’operato degli operatori umanitari diventa una sfida morale per la comunità internazionale: riconoscerli non come “danno collaterale”, non come “errore inevitabile”, ma come esseri umani a cui è doveroso proteggere la vita. Se anche chi procura cura e medicine è insicuro, allora la guerra ha vinto ogni limite del conflitto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA