«O ci buttiamo o moriamo bruciati»: fuga dall’inferno del Nepal

Quando la solidarietà sconfina nella paura
Quello che doveva essere un soggiorno di solidarietà per aiutare bambini orfani tibetani è diventato un incubo in piena rivolta. Filippo Reggiani, 48 anni, con la sua bambina di undici anni e i suoi genitori settantenni, originari di Parma, si è trovato imprigionato in una stanza d’albergo mentre la città andava a fuoco. Le strade, la hall dell’hotel, le fiamme, la scelta fra restare e bruciare o lanciarsi da un quarto piano per salvarsi. Un racconto di pura sopravvivenza che getta una luce cruda sui moti che scuotono il Nepal, la “Generazione Z” che protesta, la polvere che tutto ricopre, la paura che diventa atto d’istinto.
La rivolta che sprigiona rabbia
Nei giorni immediatamente precedenti, tensioni accumulate, provocazioni politiche, la percezione che le autorità avessero oltrepassato confini inaccettabili. La scintilla è stata la decisione del governo di controllare o limitare l’uso dei social media, considerate restrizioni alla libertà d’espressione, ma soprattutto segnali di una frustrazione più profonda: diseguaglianze sociali, nepotismo, corruzione percepita come onnipresente. Giovani pubblicano immagini di vita dei figli di politici, lussi ostentati mentre le masse stentano; il contrasto diventa esplosivo.
Kathmandu, capitale, centro del potere politico, è diventata teatro di proteste di massa. Parlamentari e strutture istituzionali sono state prese d’assalto; palazzi invasi, scioperi, interruzioni, caos. Tra gli obiettivi simbolici anche alberghi di lusso, edifici governativi, residenze di leader politici. Il fuoco è diventato espressione visiva di rabbia, desiderio di rottura, urlo collettivo.
La famiglia Reggiani: solidarietà sotto assedio
La famiglia italiana è arrivata a Kathmandu l’1 settembre con l’intento di dedicarsi al volontariato presso una scuola di orfani tibetani: portare vestiti, scarpe, acqua, matite, persino una macchina da cucire; il padre intratteneva i bambini con giochi di magia. Nulla faceva presagire la tempesta.
Martedì sera la situazione precipitava. Banditi armati oppure gruppi di manifestanti riottosi – la distinzione è incerta – occupano e incendiano zone della città, infrastrutture, hotel. L’aeroporto era già chiuso. Lo hotel dove alloggiavano si allontana da sicurezza promessa: la hall va a fuoco, corridoi e fumo denso li separano dall’unica via d’uscita. Sta iniziando la conta tra fumo, panico, fiamme.
Da un quarto piano l’unica speranza: l’aria attraverso la finestra, l’aiuto di persone incontrate per strada – giovani nepalesi – che sistemano materassi sotto le finestre, lanciano corde, aiutano a legare lenzuola al letto per creare un improvvisato passaggio verso la salvezza. Il padre, con la figlia, la madre, i genitori anziani – tutti coinvolti. Salti, cadute, distorsioni, ossa rotte. Ma vita salvata.
Nella spirale della rivolta “Gen Z”
Il nome “Gen Z” si fa largo nei resoconti. Giovani, studenti, adolescenti e ventenni, esasperati, che hanno trovato nei social media gli amplificatori della loro voce – ma è lì che si è percepita la colpa del potere: aver provato a spegnerli, aver tentato di controllarli. Il divieto o la regolamentazione forzata delle piattaforme è stato interpretato come mossa autoritaria.
Le proteste si sono fatte sempre più intense: case bruciate, edifici statali dati alle fiamme, residenze e simboli di élite attaccati o vandalizzati. Il Parlamento, la Corte Suprema, palazzi del governo – ogni cosa che potesse rappresentare l’apparato politico. Si è votata la tensione, si è reagito con il fuoco. Autorità che chiudono aeroporti, impongono coprifuoco, tentano di ristabilire ordine.
Stranieri, volontari e turisti incappati nel caos
Non si tratta solo di cittadini nepalesi: diversi turisti, volontari, stranieri si sono trovati coinvolti loro malgrado. Hotels di catene internazionali sono stati assaliti; alcuni incendiati; ospiti intrappolati; fughe disperate.
Tra questi casi, quello della famiglia parmigiana è emerso con forza proprio per la drammaticità: un albergatore che consiglia di restare, poi la hall che va in fumo, i corridoi impraticabili, la finestra come unico spiraglio. Il rischio non era più astratto, diventava concreto — “o ci buttiamo o moriamo bruciati”.
Le ferite: fisiche, psicologiche, morali
Quando emergi dall’orrore, restano le cicatrici. Alcune visibili: ossa rotte, distorsioni, traumi, ustioni, danni agli occhi, magari alla pelle. Altre invisibili: la paura che ti rimane separata dalla vita, il suono del crepitio, l’odore del fumo, la voce dei bambini che urlano, lo sguardo degli altri che non capiscono.
Per la famiglia Reggiani, la bambina di undici anni – giovane e coraggiosa – immaginare il terrore. I genitori anziani, più vulnerabili, spinti dal figlio maggiore che decide per tutti. E la madre che sverna, il padre che cade, gli amici nepalesi che tendono una mano.
La cura medica è arrivata: ossigeno per l’intossicazione, ospedali – prima uno, poi un ospedale più attrezzato. Alcuni dimessi, altri in convalescenza. Le valigie recuperate, ma molte cose rubate o perdute nel caos.
Le radici profonde: disuguaglianza, politica e controllo
La rivolta non nasce ieri. È la sommatoria di anni di malessere: giovani disoccupati o con prospettive limitate, speranze frustrate, promesse politiche tradite, sensazione che le élite continuino a vivere in un altro mondo. La politica percepita come corrotta, clientelare, chiusa.
Poi il provvedimento sui social media – visto da molti come attacco alla libertà d’espressione, come tentativo di mettere un freno alle voci che criticano. È il segno che il potere temeva il traffico di informazione, le immagini, il video che girano, la capacità critica delle generazioni più giovani.
La protesta scatta quando il margine si consuma: quando anche la dignità vacilla, quando la gente sente che continuerà a perdere ogni giorno. E allora il fuoco diventa simbolo, il rogo diventa voce.
Precedenti simili: storie di hotel, stranieri nel caos
Non è la prima volta che in contesti di rivolta i turisti o i volontari si trovano invischiati. Ci sono precedenti recenti – paesi in Asia, in Medio Oriente, in Africa – dove alberghi sono stati assaltati o incendiati, dove stranieri sono diventati testimoni involontari della ferocia popolare.
In Tahrir Square, in Egitto, durante le rivolte del 2011, molti stranieri sono stati bloccati negli hotel, hanno visto le strade infiammate, hanno dovuto uscire con le loro valigie sotto le braccia, con passaggi improvvisati. Durante pandemia e proteste in Sri Lanka, villa/residenze turistiche sono state prese di mira.
Ogni volta, le stesse dinamiche: blackout informativi, telefoni che non funzionano, autorità distratte o impegnate su più fronti, confusione, mancanza di vie di fuga, solidarietà locale che nasce per necessità.
Le reazioni istituzionali: ambasciate, governo, volontariato
Il Ministero degli Esteri italiano è intervenuto rapidamente, con ambasciate, consolati, chiedendo informazioni, attivando canali di emergenza, assistenza per rimpatri dove possibile, cure mediche, protezione dei connazionali.
L’associazione che ha organizzato il viaggio solidale è sotto choc ma dice che continuerà: “Siamo qui per aiutare, non possiamo fermarci per paura”, dicono.
Autorità nepalesi, da parte loro, in alcuni casi condannano la violenza, in altri denunciano che gruppi estranei alle proteste radicate abbiano approfittato del caos per vandalismi, saccheggi, incendi.
Scenari possibili per il Nepal
Stabilizzazione politica emergenziale: governo dimissionario, rimpasti, possibili elezioni anticipate, concessioni simboliche ma non trasformazioni profonde.
Rischio escalation: le proteste potrebbero continuare, diventare più violente, diffondersi, colpire più duramente le aree turistiche, gli stranieri, provocare interventi militari più pesanti, usare internet o comunicazione come terreno di battaglia.
Crisi economica e turistico-umanitaria: il turismo, già settore delicato, vacilla; gli stranieri restano frenati; le ong, le cooperative e le organizzazioni di volontariato che operano lì o intorno hanno difficoltà a muoversi; rischio di carenza di beni essenziali, prezzi in salita, fuga di professionalità.
Opportunità di cambiamento: se le proteste porteranno a una riforma significativa – trasparenza, uso responsabile dei social media, attenzione al disagio giovanile, meno corruzione – potrebbe nascere una stagione nuova. Ma serve più che incendi: serve politica, ascolto, cambiamenti istituzionali.
Il viaggio della speranza interrotto
Per Filippo e la sua famiglia la missione era semplice: donare, insegnare, aiutare. L’associazione con cui operano si chiama Tashi Orphan School. Portano vestiti, scarpe, matite, acqua, una macchina da cucire. La scuola è tibetana, orfani che per ragioni storiche o politiche si trovano lì.
Sono volontari di lungo corso. Ma non immaginavano che il volontariato potesse trasformarsi in sopravvivenza fisica e psicologica. Le stanze in fiamme, la scelta disperata, la fatica di scendere su corde, di cadere, di scontrarsi con la paura del padre che cade e si rompe la gamba, della madre che sviene per la caviglia distorta, della bambina che piange.
Sono stati salvati da sconosciuti, da giovani nepalesi che hanno rischiato forse tanto quanto loro. Sono stati presi in cura da medici, intossicati, immersi nell’odore acre del fumo, nell’ombra del deserto morale: “Ho visto la morte da una parte e la morte dall’altra. Ho scelto la meno peggio”.
Domande che restano aperte
Come potrà chiudersi questo capitolo? Ci sarà rimedio per chi ha visto le proprie cose bruciare? Ci saranno responsabilità ben identificate?
Come cambia la sicurezza per chi viaggia per solidarietà? Come cambiano le raccomandazioni diplomatiche, le politiche di protezione dei cittadini all’estero?
Chi pagherà per i danni materiali e psicologici? Alloggio, cure, perdita di beni, il trauma per la bambina, per i nonni, cosa resterà?
E soprattutto: le ragioni delle proteste, la frustrazione diffusa, la invisibilità sociale ed economica, come saranno affrontate? Saranno ascoltate le richieste di cambiamento o resteranno ceneri?
Il salvataggio della famiglia da Parma è una storia di coraggio, di decisione estrema, di volontà di vivere. Ma è anche un simbolo potentissimo della crisi che attraversa il Nepal: quando la rabbia sociale diviene incendio, quando il dolore si affaccia alle finestre, quando il volontario che arriva per portare speranza rischia di rimanere vittima del caos.
Questa vicenda ci ricorda che la vita spesso è appesa a un filo — una corda improvvisata, un materasso messo sotto una finestra, una scelta urgente tra il peggio e il meno peggio. E ci chiede anche di riflettere: su quanto siamo pronti, come comunità globale, a proteggere chi si immola per gli altri; su quanto siamo attenti alla dignità, anche quando tutto va a fuoco.
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