Hikikomori in Italia: quando la camera diventa confine

Un fenomeno silenzioso sta crescendo tra i giovani italiani: ragazzi che si chiudono nella loro stanza, ritirati dal mondo, assenti dalla scuola, dal lavoro, persino da relazioni familiari. È la sindrome dell’hikikomori, un ritiro sociale estremo che richiede attenzione, strategie di contrasto e una società pronta a intervenire prima che diventi ostinazione.
Hikikomori: origini, definizione e diffusione
Il termine “hikikomori”, coniato in Giappone negli anni ’90, descrive chi si ritira volontariamente dalla vita sociale per almeno sei mesi, confinato in casa o nella sua stanza. Sebbene nato in un contesto culturale molto diverso, il fenomeno si sta radicando anche in Occidente, Italia inclusa, dove un giovane su 200 sarebbe a rischio isolamento estremo.
Numeri ancora sfumati, ma preoccupanti
Gli studi più aggiornati stimano che tra i 100 000 e i 200 000 giovani italiani — prevalentemente maschi — vivano una condizione di tipo hikikomori. In molte famiglie, il ritiro avviene in silenzio, passando spesso sotto traccia fino a che il giovane non scompare davvero dalla vita.
Radici profonde: tra fragilità emotiva e pressioni digitali
Dalla neuropsichiatria infantile emergono chiari segnali: ansia, depressione, disturbi dell’umore o dell’alimentazione possono innestare un ritiro progressivo. L’iperconnessione e l’uso compulsivo dei social intensificano il distacco: dialoghi da schermo sostituiscono la presenza reale, alimentando un circolo di isolamento e fragilità psicologica.
In Italia: studi, rischi e contesto sociale
Ricerca CNR e studi sul territorio hanno evidenziato che il fenomeno non è omogeneo. Ne risulta una condizione stratificata: alcuni giovani mostrano segni precoci di disagio, mentre altri compiono un passaggio radicale al ritiro totale. A ciò si affiancano problemi ambientali e sociali, come nel Sud Italia, dove l’isolamento diventa un rischio per la sostenibilità stessa della comunità.
Le fasi del ritiro: dalla scuola alla stanza
Secondo esperti, il percorso hikikomori si snoda in tre stadi:
- Pre-hikikomori: la prima battuta d’arresto si manifesta a scuola: compiti interrotti, difficoltà nei rapporti, assenze ripetute.
- Ritiro attivo: abbandono di attività sociali e scolastiche, chiusura graduale in camera.
- Isolamento completo: il giovane resta nella stanza, dormendo di giorno e uscendo solo di notte, interrompendo ogni contatto.
Le conseguenze: mentale, fisiche, per l’intera famiglia
Chi subisce un isolamento prolungato rischia una spirale di malesseri: perdita di contatto con la realtà, aumento di ideazioni suicidarie, dipendenze da internet o da giochi. In alcuni studi, oltre un terzo dei giovani isolati ha manifestato ideazioni o tentativi autolesionistici.
Prevenzione e interventi: serve un’azione integrata
La prevenzione deve puntare su:
- Scuola come osservatore: insegnanti formati a riconoscere segnali sottili di chiusura.
- Famiglia empatica: dialogo aperto, riduzione della pressione, ricerca di supporto terapeutico.
- Interventi multidisciplinari: terapia cognitivo-comportamentale unita a percorsi socializzanti, supporto educativo e psicosociale.
Oltre il silenzio: una chiamata alla comunità
L’hikikomori non è un fatto privato da nascondere. È un’emergenza sociale, che riflette fragilità sistemiche: educative, familiari, digitali. Ogni ritiro è una storia che chiama aiuto. Aprire la porta della camera — per ascoltare — può essere il primo passo per ricostruire ponti verso la vita.
Conclusione
Il fenomeno hikikomori, sebbene partito in Giappone, oggi prende forma anche in Italia: un segnale di malessere collettivo, di adolescenti che scelgono il silenzio e le pareti come unica casa. Invece di ignorare il problema, serve una risposta collettiva che unisca scuola, famiglia, servizi sanitari e comunità. Solo così la chiusura può diventare apertura, il ritiro un nuovo inizio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA