1:58 pm, 28 Novembre 25 calendario

🌐 “Bocche cucite”: la moda che veste il profitto

Di: Redazione Metrotoday
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I silenzi e lo sfruttamento

Il mondo luccicante delle passerelle, delle griffe e delle offerte-flash negli store occidentali nasconde un costo che raramente appare nei bilanci: quello della dignità delle persone che confezionano i nostri vestiti. Due rapporti pubblicati da Amnesty International gettano una luce drammatica — e fin troppo trasparente — sulle dinamiche di potere, sfruttamento e repressione che regolano l’industria globale dell’abbigliamento. Titoli come Stitched Up: Denial of Freedom of Association for Garment Workers in Bangladesh, India, Pakistan and Sri Lanka e Abandoned by Fashion: The Urgent Need for Fashion Brands to Champion Worker Rights rivelano come grandi marchi, proprietari di fabbriche e governi dei paesi produttori si alleino per mantenere il silenzio — e i profitti — a costo dei diritti dei lavoratori. Nei centri produttivi di Bangladesh, India, Pakistan e Sri Lanka — nazioni chiave nella catena globale della fast fashion — la libertà di associazione viene sistematicamente negata. L’industria che veste il mondo occidentale poggia su salari da miseria, contratti precari, lavoro eccessivo e intimidazioni, in molti casi dirette contro chi cerca di organizzarsi. Le donne — spesso migranti, rurali, provenienti da caste marginalizzate — rappresentano la stragrande maggioranza della forza lavoro e, allo stesso tempo, subiscono le ingiustizie più gravi.

Quello che emerge dai rapporti non è un incidente isolato: è una strategia strutturata, parte integrante del modello di business globale della moda.

Marchi, governi e repressione dei diritti

Le nuove ricerche di Amnesty International — basate su 88 interviste realizzate fra settembre 2023 e agosto 2024 in 20 fabbriche dei quattro paesi — mostrano un quadro agghiacciante. Di queste interviste, 64 sono con lavoratrici e lavoratori, 12 con rappresentanti sindacali e attivisti: oltre due terzi delle persone incontrate sono donne.

Quello che ne emerge è una convivenza di interessi negativa: i governi permettono — o favoriscono — la repressione di associazioni sindacali indipendenti; i proprietari di fabbrica usano intimidazioni, licenziamenti, molestie per scoraggiare ogni forma di organizzazione; i grandi marchi internazionali fanno affidamento a queste condizioni opache per mantenere bassi i costi e massimizzare profitti.

In alcuni casi, nelle cosiddette “zone economiche speciali” (SEZ o “zes”), le restrizioni sono codificate per legge: la libertà di associazione viene de facto sospesa e al posto di sindacati vengono promosse “associazioni per il benessere” impotenti, incapaci di rappresentare davvero i diritti delle persone impiegate. 

Risultato: una parte consistente delle catene globali della moda cresce su manodopera sottopagata, sovraccaricata e costretta al silenzio. Un’industria che guadagna nonostante — o forse grazie — a violazioni sistematiche dei diritti sul lavoro.

Donne, lavoro invisibile e discriminazione strutturale

Il tessile mondiale dipende in larga parte da mani femminili. Eppure queste stessi persone sono spesso escluse da qualsiasi reale potere decisionale. Le lavoratrici — molte migranti, provenienti da aree rurali, talvolta appartenenti a caste o comunità discriminate — sono quelle che pagano il prezzo più alto.

Non solo salari bassissimi e orari massacranti: le testimonianze raccolte evidenziano molestie, violenze fisiche e sessuali, aggressioni verbali, discriminazioni di genere, classe, casta. Quando denunciano, quasi mai trovano giustizia: le direzioni delle fabbriche ignorano le lamentele; non esistono meccanismi indipendenti efficaci per tutelarle; spesso, chi prova a organizzarsi viene minacciato, licenziato o perseguito.

In molti casi, inoltre, il lavoro non viene nemmeno riconosciuto come subordinato: le cosiddette “lavoratrici a domicilio” — impegnate in ricami, rifiniture, assemblaggio — restano escluse da previdenza, protezioni sociali, permessi, contratti e perfino dall’accesso a sindacati. Questo nega ogni forma di tutela e formalità, rendendo il loro lavoro invisibile e facilmente sacrificabile.

Il silenzio dei marchi: codici di condotta inefficaci e due diligence assente

In risposta ai questionari inviati da Amnesty International fra i maggiori marchi globali — 21 brand e rivenditori con base in Europa, America, Asia — soltanto alcuni (come Adidas, ASOS, Fast Retailing, Inditex, Otto Group e Primark) hanno fornito risposte complete circa le loro politiche su diritti umani, parità di genere e monitoraggio delle forniture. Altri si sono limitati a risposte parziali; alcuni non hanno risposto affatto (fra questi, alcuni dei nomi più noti del fast fashion). 

Il guaio però non è solo nella retorica: è nella pratica. Amnesty e altre organizzazioni evidenziano come i codici di condotta e le dichiarazioni pubbliche relative ai diritti umani restino troppo spesso mere “check-list” senza una reale applicazione sul campo. Le catene di fornitura restano opache, la tracciabilità è debole, la verifica delle condizioni di lavoro insufficiente o assente. 

In assenza di norme vincolanti — e con leggi sulla due diligence ancora rare e spesso inefficaci — le aziende non sono chiamate davvero a rispondere delle condizioni nelle fabbriche partner. Così il sistema resta intatto: profitti, bassi costi, silenzio.

Il prezzo nascosto della fast fashion

Questa denuncia non è nuova — ma oggi ha un’urgenza diversa. Dopo tragedie come il crollo del complesso industriale di Rana Plaza collassato nel 2013, che costò la vita a oltre 1.100 lavoratrici e lavoratori in Bangladesh, la comunità internazionale aveva acceso i riflettori sulla sicurezza delle fabbriche.

Ma la questione sindacale — la libertà di organizzazione, la contrattazione collettiva — è rimasta in gran parte sullo sfondo. Lavoro precario, salari da povertà, intimidazioni, discriminazioni strutturali: sono queste le ferite ancora aperte di un sistema che continua a macinare profitti.

A oggi, secondo le ricerche e le attiviste, solo una minima parte delle migliaia di fabbriche operative nei paesi produttori ospita sindacati indipendenti. In Bangladesh, per esempio, si stima che solo circa il 10 % delle oltre 4.500 fabbriche tessili registrate abbia un sindacato operante.

La mancanza di voce collettiva rafforza la precarietà e consente al sistema di funzionare: ogni capo prodotto a basso costo, ogni offerta lampo “cheap & fast” riflette un costo umano concreto — spesso ignoto a chi acquista.

Il prezzo dell’indifferenza

I rapporti di Amnesty non si limitano a documentare: lanciano un appello chiaro. I governi dei paesi produttori devono garantire effettivamente il diritto di associazione, tutelare chi vuole costituire un sindacato, proteggere le lavoratrici da ritorsioni, molestie e licenziamenti. Le aziende della moda devono adottare processi vincolanti di due diligence — non a parole, ma con verifiche reali, trasparenti, misurabili — prima di approvvigionarsi.

Serve inoltre un impegno concreto per dare alle lavoratrici potere reale: valorizzare la parità di genere nelle posizioni dirigenziali, garantire contratti formali anche per chi lavora “a domicilio”, riconoscere salari dignitosi, prevenire e reprimere molestie, violenze e discriminazioni.

Se nulla cambia, il prezzo non lo pagheranno i marchi — lo continueranno a pagare le persone che ogni giorno cuciscono, tagliano, assemblano, rifiniscono. Gente reale, vite reali.

Un invito alla responsabilità

Per i consumatori — soprattutto in Occidente — queste rivelazioni dovrebbero suonare come un campanello d’allarme. Ogni acquisto, ogni maglietta a 5 euro, ogni moda “usa e getta” ha un retroterra. Dietro ogni orlo cucito, ogni tessuto tagliato, ogni etichetta attaccata, ci sono volti, mani, storie — spesso invisibili.

Ciò che serve non è solo consapevolezza: è scelta. Scelta di chiedere trasparenza, di chiedere rispetto dei diritti umani, di sostenere marchi che investono davvero nelle condizioni di lavoro — anche se questo significa prezzi leggermente più alti, produzioni più lente, meno “fast fashion” e più dignità.

I recenti rapporti di Amnesty sono una fotografia crudele, ma corretta, di un sistema che prospera sulla privazione dei diritti fondamentali: la libertà di associazione, il salario dignitoso, la protezione contro molestie e violenze.

28 Novembre 2025
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