10:46 am, 9 Novembre 25 calendario

Attraversare l’oceano a remi: l’avventura di due giovani che sfidano il Pacifico

Di: Redazione Metrotoday
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Tra i cieli diradati e l’orizzonte infinito dell’oceano, due giovani decidono di affidarsi esclusivamente alle proprie braccia, a due remi e al battito del cuore per compiere un’impresa che – sulla carta – sembra uscire da un racconto epico: attraversare il Oceano Pacifico da costa a costa, senza scalo, senza supporto. Un’avventura che unisce sport estremo, ricerca interiore e messaggio ambientale. Con questa storia ripercorriamo le radici, le motivazioni, le difficoltà e la promessa di una traversata che «non si misura in miglia, ma in battiti remati».

Una rotta impossibile

Secondo il racconto del progetto, il duo – due giovani avventurieri – ha progettato la partenza da una costa del Sud America per arrivare in Australia: un tragitto nell’ordine di oltre 8.000 miglia nautiche, ovvero più di 15.000 km. Durante la pianificazione si prevedevano onde di 10 metri, turni di remata fino a 15 ore al giorno, alimentazione ridotta, isolamento totale e incontri con tempeste, animali marini, ghiaccio salino e nubi all’orizzonte.
Questo tipo di traversata è già stata completata da équipe precedenti: per esempio, una squadra britannica di due donne ha raggiunto la meta dopo 165 giorni non‑stop, diventando la prima coppia femminile e la più giovane a compiere la rotta (da Lima ­→ Cairns). Un’altra impresa recente ha visto tre fratelli scozzesi impostare un nuovo record per la rotta non supportata. La giovane coppia attuale si inserisce dunque in una tradizione di impresa oceanica che spinge i limiti umani, ma con un registro personale, senza grandi sponsor globali, e con un forte tema di autodeterminazione.

Oltre il record

Dietro l’impresa non c’è soltanto la “sfida” fisica. I due giovani spiegano che l’idea è nata durante un’età in cui desideravano «uscire dalla comfort zone», mettersi alla prova e dare un senso alla propria vita con una meta tangibile. L’oceano è diventato il teatro della prova, l’imbarcazione la “camera” della loro esperienza, le remate i rituali quotidiani.
Inoltre, in un mondo in cui l’avventura è spesso filtrata dai social media, l’idea di isolarsi per mesi, di contare soltanto sulla fatica e sulla natura, assume una forza simbolica: «Quando si remava, non pensavamo a follower, pensavamo solo a non svegliare l’animale che dormiva sotto la barca», ha affermato uno dei due in un passaggio.
Infine, la traversata assume anche una componente ambientale: l’oceano, lo spazio selvaggio, il rispetto delle correnti e delle maree, sono testimonianza che le sfide individuali possono diventare anche forma di consapevolezza verso la natura e il pianeta.

Preparativi e imbarcazione

La barca scelta è una scafo oceanico di circa 9 metri, dotata di doppia cabina, serbatoi alimentari, pannelli solari, sistema di desalinizzazione dell’acqua, GPS, radio, ma soprattutto due remi robusti e perfettamente bilanciati. In fase di preparazione, gli allenamenti hanno incluso: sessioni da 6‑8 ore consecutive in mare, notte remata, simulazioni di tempesta in bacini costieri, esercitazioni di autosoccorso, gestione delle emergenze, riparazioni in mare, alimentazione essenziale (5000 calorie al giorno…), gestione del sonno in turni di 2 ore remata / 2 ore riposo.
Tra i momenti chiave, la coppia ha dovuto affrontare: affinamento dell’equilibrio della barca, verifica dei materiali (cordame, cassette stagne, galleggianti), studio delle rotte di corrente e vento, accordo con enti marittimi per tracciabilità e sicurezza. Ogni nodo, ogni vite, ogni gesto contava. «La barca non è un veicolo di lusso», ha spiegato uno, «è una piattaforma di sopravvivenza».

I giorni, i battiti e i silenzi

Dalla partenza (in primavera) fino all’approdo, i giovani hanno vissuto un ciclo che unisce fatica e meraviglia: giornate da 15 ore di remata, mare calmo o onde alte più di 4‑5 metri, temporali, visite di delfini e balene, albe solitarie e tramonti senza fine. Il ritmo era brutale: 2 ore remata, 1 ora pausa, alzarsi, scendere, bilanciare, bere, sistemare l’attrezzatura, riprendere. Il sonno era frammentato: 20‑30 minuti a turno, mai un riposo lungo.
In una nota di bordo si legge: «Alla settimana 8 abbiamo iniziato a contare i giorni solo in ore; dopo il giorno 100 il calendario ha perso senso». Il mentale conta quanto i muscoli: solitudine, monotonia, vista solo d’acqua e cielo, poche parole, tanto remare.
Il prezzo fisico è elevato: vesciche su palmi e piedi, pelle salata, disidratazione, spalle martellate, mal di schiena cronico. Ma anche una dimensione estetica e umana: cielo stellato totale, silenzi infiniti, il suono dell’acqua sullo scafo, la paura del buio. «Alla mia sinistra una balena è passata a un metro», ricorda l’altro. «Capisci che sei minuscolo».

Le prove più dure

Tra le difficoltà più gravi ci sono state: rottura del timone dopo 2 settimane e rientro forzato in porto per riparazioni; perdita del langostino d’allarme AIS causa batteria scarica; trimestre in cui le correnti hanno rallentato la barca di 0,2 nodi medi — che significa giorno dopo giorno guadagnare meno metri e rischiare la dieta idrica. Un’onda tropicale di 8 metri ha investito la barca in piena notte, ha danneggiato il piano solare e costretto a un fermo di 12 ore. Il morale crollato, il rimorso di aver sottovalutato un passaggio meteorologico, la chiamata al team a terra: «Se perdiamo il desalinizzatore, siamo finiti».
Ma anche attimi di leggerezza: una pausa di 10 minuti per giocare a carte sul ponte, una liquirizia offerta l’uno all’altro come premio, una risata all’errore dell’altro “Hai remato tu tutto il quadrante sud‑ovest!”. È anche questo che lega: una simbiosi remata‑equipaggio che diventa famiglia.

L’arrivo sulla terra ferma

Il momento del landfall è un brivido: terra all’orizzonte dopo mesi solo d’acqua, voglia di mangiare cibo fresco, abbracciare i propri cari, fare una doccia vera. Quando la coppia ha raggiunto la costa australiana, il momento è stato accolto da folla, abbracci, cartelli, birra fredda e ovviamente pizza: «Dopo 165 giorni, la prima pizza vale più della medaglia», ha scherzato uno di loro. La barca è stata trainata in porto, le braccia quasi immobili, ma il cuore pieno di storie. Il pubblico ha applaudito non solo l’impresa fisica, ma il simbolo che essa porta: resistenza, cooperazione, sogno.
Subito l’equipaggio ha dichiarato di voler usare la visibilità guadagnata per promuovere progetti educativi: sensibilizzazione sulle acque, sull’oceano, sull’avventura che diventa strumento di crescita.

Le sfide

  • Ecologia e memoria dell’oceano: L’oceano è un ecosistema che chiama rispetto e attenzione. Remare in un’imbarcazione autosufficiente crea consapevolezza sui rifiuti, le correnti, il silenzio, la profondità.

  • Sfida umana e mentale: Oltre alla forza fisica, la traversata è scuola di solitudine, decisione, squadra, sacrificio. In un’epoca di comfort e immediato, scegliere la fatica è gesto radicale.

  • Spirito d’avventura moderno: Non si tratta solo di esploratori in mezzo al nulla: la sfida si intreccia con comunicazione digitale, raccolta fondi, missione sociale. Il remoto diventa risonanza globale.

  • I nuovi orizzonti delle traversate: Se 50‑60 anni fa solo pochi tenta‑vigi affrontavano l’oceano, oggi la tecnologia, l’allenamento, le reti sociali permettono che giovani coppie – o team misti – spingano ancora più in là i limiti.

  • Ispirazione per chi resta a terra: L’impresa non è solo per chi ha remi e barca, ma per chi osserva, per chi sogna; è un invito a chiedersi: “Qual è la mia traversata?

Precedenti

  • Nel 1972 una donna britannica divenne la prima a remare l’Oceano Pacifico in doppio. Partenza da San Francisco, arrivo in Australia, 363 giorni al timone.

  • Nel 2016 una squadra di quattro donne attraversò il Pacifico dal California alla Australia in 9 mesi, stabilendo record e raccontando una nuova epoca di avventura oceanica.

  • Nel 2025 un trio di fratelli scozzesi ha completato la rotta da Sud America a Australia in 139 giorni, record assoluto, dimostrando che la traversata non è più riservata a pochi ma è evoluta in sfida calibrata.

Queste storie testimoniano che l’oceano non è solo barriera, ma palestra, che le remate diventano metafore di vita, e che il Pacifico, enorme e solenne, conserva ancora spazi per chi remi.

Cosa resta dopo la traversata

Una volta tornati, i due giovani affrontano un nuovo “post‑oceano”: riprendere i ritmi quotidiani, rintracciare i fili della loro identità, raccontare l’esperienza, integrare quanto imparato. Alcuni strumenti che hanno detto di portare con sé: resilienza, attenzione alla fatica, gratitudine verso l’acqua, umiltà davanti alla natura.

Una traversata da un continente all’altro su un remo ciascuno non è solo un record: è un patto con l’oceano, con se stessi, con la vita. I due giovani hanno deciso di entrare in quel patto. Hanno accettato la solitudine, la fatica, l’attesa, la tempesta. Hanno remato contro correnti, onde e ore interminabili, per arrivare alla riva dell’Australia e vedere che forse, laggiù, non c’è solo terra, ma una nuova prospettiva.

9 Novembre 2025 ( modificato il 10 Novembre 2025 | 10:42 )
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