Addio a Robert Redford, il gigante che guardava oltre lo schermo

È morto Robert Redford. L’attore, regista, fondatore di festival, ambientalista, simbolo di un cinema che guarda al sociale e all’individualità, si è spento a 89 anni nella sua casa a Sundance, Utah, “il luogo che amava” e circondato dai suoi cari. È la fine di un capitolo importante della storia del cinema americano — e non solo.
Una vita che ha attraversato decenni, mode, illusioni, storie pubbliche e private, successi travolgenti e scelte difficili. Un’eredità che sfida chi fa cinema oggi, e chi ama il cinema come idea, ambizione, sogno.
Dagli esordi al successo: la costruzione di un’icona
Charles Robert Redford Jr. nasce il 18 agosto 1936 a Santa Monica, California. Figlio di genitori che si sarebbero separati, con una giovinezza segnata da trasferimenti e difficoltà economiche, Redford fin da ragazzo coltivò passioni — recitazione, arte, sport — che lo portarono, dopo un percorso formativo altalenante, alla scuola di recitazione (American Academy of Dramatic Arts) e alle prime esperienze in teatro, televisione, piccoli ruoli.
Fu però negli anni Sessanta che la sua carriera prese la piega che lo avrebbe reso celebre. Con Barefoot in the Park (1967), accanto a Jane Fonda, e con film come Downhill Racer, iniziò a costruire quel mix di fascino, naturalezza, sorriso accattivante, presenza “non costruita”, seduzione sobria, che sarebbe diventato il suo marchio.
Negli anni Settanta esplode la celebrità: Butch Cassidy and the Sundance Kid (1969) insieme a Paul Newman lo consacra non solo come eroe romantico della frontiera, ma come volto di una generazione che guarda al cinema con spirito critico e desiderio di autenticità. Seguono The Sting (1973), All the President’s Men (1976), The Way We Were (1973) e altri film che non furono solo successi commerciali, ma testimonianze di a quanto potesse arrivare il cinema che vuol intrattenere ma anche interrogare.
Il regista, il produttore, il mentore
Redford non si fermò all’essere volto bello e carismatico. Col passare degli anni, affinò uno sguardo più attivo dietro la macchina da presa. Nel 1980 arrivò il debutto come regista con Ordinary People, film che ottenne l’Oscar per il Miglior Regista e Miglior Film, raccontando con delicatezza quanto potente il dolore, il senso di perdita, le relazioni interrotte da tragedie private.
Ne seguirono altri lavori alla regia che testimoniano la sua sensibilità per storie complesse: A River Runs Through It, Quiz Show, The Horse Whisperer sono esempi in cui Redford scelse non solo la forma, ma il contenuto, riflettendo sulla memoria, sulla natura, sul senso di responsabilità individuale e collettiva.
Sundance: far nascere il fuoco indipendente
Uno degli atti più duraturi del suo lascito è la fondazione del Sundance Institute (fine anni Settanta), e poi del Sundance Film Festival. Un’idea apparentemente semplice: creare uno spazio diverso da Hollywood, un luogo dove registi emergenti, storie marginali, voci coraggiose, possono trovare visibilità, supporto, community.
Sundance diventò sinonimo di “cinema che conta”, di sperimentazione, di indipendenza, di scommessa sul futuro, non solo sul presente: un incubatore di talento che ha prodotto o aiutato film e registi poi diventati punti di riferimento.
Uomo pubblico e attivista
Redford fu anche molto più di un volto sullo schermo. Ambientale, politico, attivo nel sostegno a comunità indigene, sostenitore di cause ambientali, patrigno di battaglie di sostenibilità. Non sempre questo ruolo fu al centro del racconto pubblico, ma era sempre presente nelle sue interviste, nelle sue scelte, nelle sue produzioni.
Il suo centro abitativo a Sundance, le sue attività nella natura, il suo distacco dalle luci artificiali della celebrità classica — tutto appariva parte di una vita costruita con cura, dove l’arte conviveva con la riflessione, con il silenzio, con la responsabilità.
Ruoli che non si dimenticano
Per capire il Redford che se ne va, vale la pena ripercorrere alcune tappe imprescindibili:
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Butch Cassidy and the Sundance Kid (1969): non solo un western, ma un racconto di amicizia, disillusione, eleganza e sfida. Redford qui è l’antieroe romantico, libero, ironico, pieno di grazia.
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The Sting (1973): con Paul Newman, stile da commedia-crimine, ma con tensione, con le pieghe morali che Redford seppe rendere leggere ma sentite.
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All the President’s Men (1976): giornalismo, verità, potere politico. Un film che ancora oggi, in tempi di fake news, ha eco immensa.
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The Natural (1984): il baseball come metafora del talento, della seconda chance, dell’idealismo che cerca riscatto.
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All Is Lost (2013): personaggio solo in mare aperto, quasi senza dialoghi, in lotta con gli elementi; una prova estrema, che mostra il suo corpo e il suo spirito, una fine di carriera consapevole, potente.
La risposta del mondo
E’ morto “nel sonno”, nella sua casa a Sundance, Utah. Aveva 89 anni. La sua vita si chiude dove aveva costruito il suo rifugio, letteralmente e spiritualmente: lontano dal clamore, nel silenzio della montagna e della comunità che aveva scelto.
Le reazioni sono state immediate: colleghi di una vita — Jane Fonda, Meryl Streep, Paul Newman suo “fratello di cinema”, registi, produttori — hanno espresso il dolore di perdere non solo un compagno di set, ma un compagno di strada.
Il pubblico, i media, le comunità indie — tutti ricordano non solo i film ma l’idea di Redford: il cinema come specchio, come spazio etico, come sfida, non solo come evasione.
Le radici di una leggenda
Redford non nasce leggenda, ma diventa leggenda — passo dopo passo, progetto dopo progetto. È l’incrocio fra talento naturale, scelta consapevole, tempi storici favorevoli ma anche difficili.
Negli anni Sessanta-Settanta, l’America e il mondo vivono rivoluzioni sociali, economiche, culturali: diritti civili, guerra in Vietnam, contestazione, femminismo, ambientalismo. Redford incarnava quel vento: giovani che non si accontentano, che chiedono autenticità, verità, responsabilità.
Ma non era solo un “figlio dei tempi”: lavorava, sceglieva sceneggiature, investiva — non accettava soltanto ruoli comodi, ma spesso sfidanti: il suo personaggio poteva essere idealista, scomodo; il film poteva avere sfumature etiche, amare, incomplete.
Cosa lascia Redford? Cosa resta, e cosa può continuare?
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Il patrimonio filmico: decine di pellicole memorabili che attraversano generi: western, thriller, dramma, romance, film storico, film d’avventura. Ogni genere gestito con personalità propria.
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Il “modello Sundance”: festival, istituto di formazione, spazio per il cinema indipendente, spesso marginale o escluso dal circuito dei grandi studios.
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L’attivismo ambientale: una figura che ha usato la sua notorietà per dare voce a questioni urgenti, dal cambiamento climatico alla tutela dei territori naturali.
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L’ispirazione per gli attori, registi e produttori di domani: per chi vuole fare cinema che importa, che interroga, che non rinuncia al rischio.
Le ombre e le contraddizioni
Nulla di grande è privo di sfumature. E Redford ne ebbe, come chiunque visse a lungo da protagonista:
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Il suo “Goldie Boy” hollywoodiano: l’immagine affascinante, la seduzione naturale, la bellezza giovanile — aspetti che a volte hanno oscurato la complessità interiore che lui stesso spesso dichiarava di non amare troppo. L’aspetto fisico fu allo stesso tempo trampolino e limite, nei ruoli che gli venivano offerti.
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La tensione fra mainstream e indipendenza: il successo commerciale, le star wages, la fama internazionale da un lato; la volontà di sviluppo del cinema indipendente, la critica, il ritorno alle radici dall’altro.
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La scelta del ritiro: Redford aveva annunciato che The Old Man & the Gun (2018) sarebbe stato il suo “addio da attore”, ma poi alcune apparizioni o cameo occasionali erano rimaste possibili. Il passaggio dalla visibilità all’assenza è progressivo, e in quel passaggio molto conta come hai costruito la tua immagine, come hai lasciato tracce.
Il tempo che passa
Con la morte di Redford non se ne va solo un attore, ma un’epoca. Quella in cui il cinema era vista come arte popolare, come luogo di visione critica, come ponte fra cultura alta e cultura di massa.
Nel suo cinema convivono tragedia personale e responsabilità collettiva, bellezza visiva e riflessione morale. Redford riusciva, più di altri, a tenere insieme queste tensioni: incarnava il fascino del volto giovane, ma aveva anche lo sguardo del narratore che osa, del regista che difende la visione.
Cosa dice il panorama internazionale
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Critici di lunga data sottolineano come Redford fosse uno che “non faceva compromessi facili”. Prima di finanziare un film lo guardava negli occhi del regista, del soggetto, della comunità che avrebbe raccontato.
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Le star contemporanee parlano del Redford che insegnava, offriva spazio, che non pensava solo a sé ma al collettivo del cinema: al valore del racconto indipendente, della diversità, della responsabilità ambientale.
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Il pubblico lo ricorda per le sue storie, certo, ma anche per la coerenza personale: la casa a Sundance, la vita nella natura, l’amore per gli spazi aperti, per la semplicità (quando possibile), per il silenzio fra un film e l’altro.
Il valore della perdita
Quando un gigante se ne va, non è solo la mancanza di nuove storie, ma l’assenza di una voce che a volte sfida, ammonisce, consola, incita.
Redford ha vissuto sotto i riflettori, ma ha costruito gran parte del suo percorso nella penombra: dietro le quinte, dietro la macchina da presa, dietro le troupe che non fanno rumore, dietro le menti che credono che il cinema possa cambiare qualcosa.
Robert Redford non era perfetto, ma era intenso. Non era mai prevedibile, ma spesso richiesto. Amava i grandi spazi, gli silenzi, le storie scomode, i personaggi sfaccettati. Amava gli ideali, e nel piccolo aveva costruito molto: festival, scuole, idee, comunità.
La sua morte chiude un capitolo importante. Ma non è la fine del racconto. I film restano. Il Sundance continua. Il cinema indipendente ha un modello. Le cause che ha sostenuto — l’ambiente, la verità, la cultura — restano anche più urgenti ora.
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